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Back In Time

Back In Time: DUNGEN – Ta Det Lugnt (2004)

Nungen

Cosa c’è di meglio per celebrare l’arrivo dell’estate che danzare come delle rane intorno ad un palo di forma fallica? Mi avete capito bene. I bizzarri festeggiamenti di Midsummer sono dietro le porte e non esiste momento migliore per decantare i prodotti della terra che li ha concepiti, la Svezia. Oggi, il prodotto in questione è “Ta Det Lugnt” (“Take It Easy”), terzo album in studio di una delle più longeve e sottovalutate band in circolazione, i Dungen.

Nonostante i vent’anni d’attività, i 9 album alle spalle ed il riconoscimento unanime della critica, i Dungen rimangono ancora oggi una realtà relativamente poco conosciuta. Il che è strano, considerando che tantissimi artisti di fama internazionale li annoverano tra le loro principali influenze, dai Tame Impala a Melody’s Echo Chamber ai Woods, con i quali hanno anche inciso un EP collaborativo nel 2018 (“Myths 003″). Pensate che Robin Pecknold, frontman dei Fleet Foxes, li ha addirittura definiti “di gran lunga la migliore band del pianeta”. In particolare, da umilissimi artisti quali sono, i Dungen parlano della loro relazione con Kevin Parker (Tame Impala) come di uno scambio costruttivo iniziato intorno al 2007 e sostengono che – nonostante la loro musica arrivi storicamente prima di quella degli australiani – nessuno ha saccheggiato nessun altro.

Dungen

Con tutto il rispetto per la politeness svedese, mi permetto di dissentire. Da fan dei Tame Impala, devo ammettere che ascoltare per la prima volta i Dungen è stata un’esperienza disturbante. Un esempio? Godetevi in sequenza Fredag degli svedesi e Apocalypse Dreams degli australiani. Per questo, nonostante preferissi le cavalcate psych-rock di “Innerspeaker” e “Lonerism” all’electro-pop decisamente più mainstream di “Currents“, sono contento che quel furbone di Parker abbia deciso di esplorare terrotori più personali e mettere fine alla ruberia (si scherza). Ma torniamo a noi. Chi sono i Dungen?

A muovere le redini è frontman Gustav Ejstes, multistrumentista, compositore e parolista della band. Ad aiutarlo negli arrangiamenti abbiamo Reine Fiske alla chitarra (The Amazing), Mattias Gustavsson al basso (Our Solar System) e Johan Holmegard alla batteria. Nonostante canti perlopiù in lingua madre accompagnandosi col pianoforte, Gustav racconta di non essere cresciuto esclusivamente a pane e folk-pop come si potrebbe pensare. Da teenager sviluppa infatti una forte fascinazione per l’hip-hop, per lo skratching, per la cultura black americana di fine anni Ottanta. Di conseguenza, quando interpellato sulle proprie fonti d’ispirazione, il fatto che risponda “Public Enemy” non deve certo scioccare. Naturalmente essere una fonte d’ispirazione è diverso dall’essere un’influenza musicale ed estetica diretta. Lasciamo dunque da parte la simpatica retrospettiva sull’amore di Gustav per l’hip-hop e passiamo a decorticare gli ingredienti che si nascondono dietro ad una ricetta tanto deliziosa quanto complessa come quella di “Ta Det Lugnt“.

Innanzitutto, ci sono i Träd, Gräs och Stenar, pionieri della cultura DIY e leggende della psichedelia svedese (S/T, 1970), ancora oggi attivi con lo pseudonimo Träden (S/T, 2018) e con alla chitarra proprio Reine Fiske dei Dungen. Ci sono i maestri del folk progressivo svedese: in primis le incredibili sessioni strumentali di Bo Hansson (“Ur Trollkarlens Hatt“, 1972), ma anche gli ispirati lavori degli artisti che gli gravitavano intorno, dai Fläsket Brinner (S/T, 1971) ai Kebnekaise (S/T II, 1973) fino ai Ragnarök (S/T, 1976). C’è tanto Jimi Hendrix, anch’egli ammiratore di Hansson, con il quale non solo ha suonato una storica jam al Klub Filips di Stoccolma nel 1967, ma al quale ha persino dedicato una cover, “Tax Free“, che potete trovare in “War Heroes“, “South Saturn Delta” o nei vari bootleg di live performances del re della sei corde. Ci sono i Jethro Tull (“Aqualung“, 1971), i Pink Floyd (“Ummagumma“, 1969), i Genesis di Peter Gabriel (“Nursery Cryme“, 1971). C’è il flauto shakuhachi di Minoru Muraoka (“Bamboo“, 1970), i grandi jazzisti svedesi degli anni Cinquanta (Lars Gullins, Arne Domnérus) e – andando ancora più indietro nel tempo – persino le Gnossienne di Eric Satie, originalissime e minimali composizioni pianistiche dal retrogusto allucinogeno, concepite come accompagnamento alle feste orgiastiche di Dioniso, dio del vino. Insomma, quella dei Dungen è una musica che si muove nei secoli, dalle mille sfaccettature, che guarda sì alla psichedelia di fine anni Sessanta e inizio anni Settanta come alla sua più grossa influenza stilistica, ma che porta rispetto per artisti classici, jazz e persino avanguardisti contemporanei (Aphex Twin, Radiohead).

Come’è possibile che una band che canta in svedese abbia un seguito internazionale? La risposta ce la da lo stesso Gustav in una video-intervista per Svensk Music (2011): “una lingua che non comprendiamo può comunque trasmettere un’idea del sentimento che cerca di rappresentare”. Ed è proprio vero. Ascoltando capolavori quali Panda, Festival e soprattutto Du E För Fin För Mig (“You Are Too Good For Me”) siamo sopraffatti dalla nostalgia, dal gusto agrodolce di giovani amori sbocciati, vissuti e passati, pur non capendo una dannata parola. I Dungen sono uno di quei rari fenomeni alla Sigur Rós, caratteristici del nord e di una bellezza quasi soprannaturale, sospesi nel tempo, proprio come un’aurora boreale. La differenza è che, non essendo mai stati “presi in prestito” da Ford, Ubisoft e compagnia bella, hanno mancato di raggiungere il grande pubblico per vie trasverse.

Conscio che un “Back In Time” non cambierà certo la situazione, mi permetto di aggiungere: meglio così. Proprio come una foresta incontaminata che siede ai confini di una grande metropoli, i Dungen resistono da quasi due decadi all’urbanizzazione senza scrupoli dell’industria musicale, ergendosi a paladini di un patrimonio musicale tanto sconosciuto quanto influente. Nel giorno del quindicesimo compleanno di “Ta Det Lugnt” – il loro capolavoro – un solo desiderio mi bazzica per la testa, immaginando Gustav che soffia sulle candeline: speriamo che la deforestazione guidata dai bulldozer degli Swedish House Mafia non faccia cadere nell’oblio questa perla musicale. Noi, nel nostro piccolo, facciamo di tutto per promuoverla. Grattis.

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