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Back In Time

Back In Time: ORCHID – Chaos Is Me (1999)

Orchid

Esistono i palazzoni anche al limitare dei paesi. Sia in pianura che in montagna. Nelle campagne, nelle province. Ci abitano i pendolari, quelli che varcano la soglia di casa alla mattina presto. Non lasciano la propria dimora con lo stesso animo di tutti gli altri, lavoratori o pendolari che siano: abitare nella periferia di un piccolo paese, significa andare a lavorare lasciando due volte le cose che ci appartengono, significa un doppio esilio, significa una doppia lotta.

In treno, vedevo passare dal finestrino i palazzi grigi, posti a poche centinaia di metri dalle stazioni. Ne vedevo i prodotti, che salivano sul vagone sempre sorridenti, e si mettevano a discutere della loro vita vicino a me, mentre io non avevo nulla a cui pensare se non ai loro giardinetti condominiali, lasciati a loro stessi per tutto il giorno che era appena iniziato. Ci pensavo io, a loro. Ed ero sicuro che, una volta avvicinati all’orario serotino, avrebbero riabbracciato le loro sicurezze domestiche.

Non ero pronto per gli Orchid. “Chaos Is Me” si trovava tra i tanti album che avevo sparsi in diversi formati in casa dei miei, era su un CD masterizzatomi da un amico, più grande di me, che si prese a cuore i miei gusti musicali in campo screamo ed emoviolence, troppo indirizzati verso la Francia e l’Italia. Mi masterizzò il “Document #8” dei Page Ninetynine, appena uscito, e il primo disco degli Orchid, che era uscito su Ebullition due anni prima. Intrapresi così il percorso musicale inverso rispetto a quello di tutti. Prima ascoltavo i gruppi italiani e francesi, poi quelli americani, di Amherst, Massachussets. Perché gli Orchid venivano da lì, da una cittadina grande come un paese al cui limitare iniziavano a sorgere palazzoni residenziali che guardavo passar via dal finestrino del treno. Erano nati e cresciuti lontano dalla culla dello screamo, identificabile con la costa Ovest americana.

Orchid

La Ebullition è di Goleta: quando ordinavo gli arretrati di Heartattack! o quando spedivamo i dischi dei gruppi che producevamo con la nostra etichetta, quell’indirizzo, PO BOX 680 GOLETA CA rappresentava la continua realizzazione di un sogno.

Sebbene la canzone dedicata alla loro città, Amherst pandemonium, sia inclusa nel “Gatefold”, successivo a “Chaos Is Me”, con New Jersey vs Valhalla ci diedero già un’indicazione geografica, dall’area da dove provenivano. Non erano californiani, prima di tutto. “It’s too quiet. Every word means something different. We’ll recover like a brick to the face”. Descrivendo la loro provincia come Jonathan Dee la descrive nei suoi romanzi o come ne parla Avati nei suoi film: annoiata, borghese e sprangata. Gli Orchid non lasciarono molto spazio a sillogismi, nel parlarne: ogni pezzo è un macigno inamovibile di trasparenza e disillusione.

Con “Chaos Is Me” debuttarono spostando l’attenzione sull’impegno, dando i natali ad una nouvelle vague musicale che nessun altro gruppo indipendente aveva provato a riprodurre. Il titolo in francese assegnato alla canzone che, tra tutte, avrebbe dovuto essere il manifesto politico della band di Amherst, ne è la palese evidenza. Perché viene ripetuto al suo interno, sì, “Chaos Is Me”, ma la traduzione del verso in francese rincorre le parole subito dopo. Le Desordre, c’est moi. Fu una vera e propria rivoluzione copernicana in America, il suonare una musica capace di smuovere l’attenzione dei fan dalla rabbia più tangibile, che aveva avuto sino a quel momento origini nell’alienazione e nello sfruttamento, al pensiero. Lo scrivere dei testi così concettuali, accompagnandoli ad una sezione musicale volutamente dissacrante e violenta permise agli Orchid di creare un vero e proprio movimento attitudinale, capace di varcare i confini tracciati dalle mode e dai movimenti culturali che si erano susseguiti negli Stati Uniti sino a quel momento. Non esistevano più i kids e il senso di appartenenza ad una crew andava indebolendosi sempre di più. L’importante divenne così leggere, informarsi, supportare ogni concerto nel raggio di cento chilometri, capire il mondo nel quale si viveva per poter crescere interiormente. Fu l’inizio di una nuova epoca, per chi studiava, per chi lavorava, per chi suonava. Finalmente era il pensiero e non l’azione il punto focalizzante della ricerca musicale. Fu un Illuminismo, in primo luogo perché suonare emoviolence non fu più additato come un modo di atteggiarsi naïf e fine a se stesso, dopo l’uscita di questo disco: i kids stavano iniziando ad avere il loro say e dal momento della sua uscita in poi, le cose non furono più le stesse.

Non ero pronto, per “Chaos Is me”. Lo ascoltavo come seconda scelta, quando ero veramente troppo stanco o avevo veramente troppo sonno, squadrando la gente che saliva sul treno, accodata, cercando di rimanere azzimata nonostante una lunga giornata lontano da casa. Pensavo ai loro giardini ed ai loro pianerottoli appena ripassati e non mi accorgevo che Death Of A Modernist, per esempio, poteva essere la trascrizione letteraria di un quadro, o che tutto il disco fosse riconducibile, nel suo insieme, alla speculazione dell’Albert Camus che vinse il Nobel per la letteratura nel 1957 ( dopo la pubblicazione de “La Caduta”) e di cui viene riportato un pensiero sull’arte, proprio di quell’anno, tramite il quale il filosofo Pied-Noir ne esaspera l’azione taumaturgica, capace di rendere immortali persino la nostra sofferenza e le nostre passioni. Questa estetica della morte, idealizzata e rinfrancante, sarà presente in tutta, poi, la discografia degli Orchid, tanto da ispirarne le grafiche all’interno degli album e il modo di porsi nei confronti dell’ascoltatore. Lo sforzo di una vita intera può essere ripagato dal suo stesso atto finale.

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Non, non ero pronto. Per superare i momenti difficili, quelli con tante cose da fare, con il lavoro, con le altre persone che abitavano il mio pianeta, mia madre una volta mi disse di leggere Brecht, se pensavo che ogni giorno vi fossero state troppe ingiustizie. Mi sarei così sentito in pace con me stesso, almeno, tracciando ogni sera una linea netta di confine tra ciò che fosse giusto e ciò che invece era sbagliato.

Vorrei essere capace di descrivere un anno come gli Orchid furono capaci di raccontare il 1999 o come Deaglio fu in grado di parlare del 1994: l’ascesa di Berlusconi, il piccolo Nicholas Green ucciso sulla Salerno -Reggio Calabria, le sorprese degli Ovetti Kinder che arrivarono, trasportati dall’acqua, dalle fabbriche delle Ferrero sino al Mare Adriatico.

Quando pubblicarono su Heartattack! la recensione della “Retrospettiva 1994- 2002” dei Kafka di Genova, che avevamo prodotto noi, con la nostra etichetta da provinciale, e che avevamo spedito come piego di libri, togliendo la custodia e lasciando all’interno del pacchetto solo il CD e le grafiche di contorno, smisi di sentirmi inadeguato. La stessa etichetta californiana di Goleta che aveva pubblicato “Chaos Is Me” ci aveva dato spazio come aveva dato spazio a quella musica così violenta e disperata, così attaccata all’idealismo che pareva inamovibile e inattaccabile da ogni punto di vista.

E allora, forse, mi sentii pronto.

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