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Uniform & The Body – Everything That Dies Someday Comes Back

2019 - Sacred Bones Records
industrial / sludge / hip hop

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Tracklist

1. Gallows In Heaven
2. Not Good Enough
3. Vacancy
4. Patron Saint Of Regret (feat. SRSQ)
5. Penance
6. All This Bleeding
7. Day Of Atonement
8. Waiting For The End Of The World
9. Contempt


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Uniform e The Body sembrano proprio divertirsi, una volta usciti dallo studio per registrare qualcosa di nuovo, scegliendo di volta in volta un mostro sacro da citare per il titolo del lavoro appena inciso. Ricapitolando: un anno fa i due gruppi scelsero di rifarsi ad Ozzy Osbourne e alla sua Crazy Train con “Mental Wounds Not Healing”, mentre quest’anno fanno un balzo oltreoceano e da Birmingham approdano nel New Jersey.

Vi potrebbe capitare, leggendo il titolo del secondo lavoro in combo delle due creature statunitensi, di canticchiare alcuni versi di Atlantic City, celebre brano dell’altrettanto celeberrimo “Nebraska” del più celebre dei celebri cantautori dell’epoca moderna, ovvero Bruce Springsteen. La cosa potrà farvi piacere oppure no (e io sono di quest’ultima scuola), intanto i ragazzi del Rhode Island e di New York City si sollazzano nel prendere contropiede i propri fan, andando a pescare da realtà che con la propria immane creatura e le sue creazioni orrorifiche han poco e niente a che fare. In questo caso specifico, però, giocoforza lo fanno le liriche sotterranee del Boss, spesso indirizzate ad un’America invisibile e dimenticata e spesso e volentieri in decadenza o già ampiamente decaduta sotto la scure di una società postindustriale che aveva tutto da perdere.

Se Springsteen ha raggiunto il cuore della gente attraverso una dialettica working class e strutturata più sulle parole che su un determinato tipo di musicalità (non che non vi fosse), mostri di pesantezza come possono essere i progetti di Lee Buford, Chip King da una parte, Ben Greenberg e Michael Berdan (ora forti della presenza dell’ex-Liturgy Greg Fox) dall’altra spesso si affidano alla possenza e all’abisso sprigionato dalla totalità del proprio linguaggio, e non sempre alla sola ed unica presenza di liriche intelliggibili e dirette.

Non fraintendetemi, non porrei mai nemmeno per scherzo le due realtà le une vicini all’altra, ma il terreno su cui ci si muove è spesso molto simile, solo con le conseguenze ovvie della propria generazione e di come le si deve e può dipingere. La scelta del gruppo esteso di questa gang di pazzi è quella di portare in dote ognuno il proprio bagaglio di pars destruens per sprigionare in uscita una pars construens ogni volta mutata e mutante e mantenere la propria ragione sociale anziché nascondersi dietro ad un nome nuovo da supergruppo è una scelta tutto tranne che semplice. Significa mettersi in gioco senza cercare un riparo, nel bene e nel male, facendo confluire il proprio essere in un’entità altra ma pur sempre simile a se stessa. Roba ardua.

Sempre più votati ad una forma di heavy music che si prende l’onere di cercare forme melodiche sempre più accentuate che non tolgano nemmeno un ettogrammo di pesantezza dalla propria narrazione, a questi signori piace comunque far saltare sulla sedia chiunque vi si approcci spostandosi percettibilmente su terreni completamente avulsi alla propria origine comune. La Sacred Bones per descrivere l’album tira in ballo Ministry, New Order e Juicy J (rapper che gravita nell’orbita di gigantesse del pop come Katy Perry e Nicky Minaj per intenderci) mentre la band vede un punto di incontro tra la dotata popstar Robyn e i Corrupted il proprio attuale cammino. Entrambi hanno ragione da vendere. I beat smussati di brani come Penance e Gallows In Heaven prendono molto alla larga il panorama industrial per attestarsi in un regno pop alieno che, mischiato a voci abbacinanti e liriche sanguinolente creano una sensazione di inesorabile lontananza dall’umanità.

La presenza della brava ed intrigante SRSQ su Patron Saint Of Regret è il punto di contatto con l’aspetto “Robyn” della faccenda, un brano che inizia hardcore punk NYC accompagnato dalla rugginosa voce di Berdan e che si getta ben presto nelle delicate ed evocative spire vocali di Kennedy Ashlyn su una base super-trap che lascerà ovviamente interdetti i più di voi. La materia hip hop atterra sulla bouncy Day Of Atonement e l’effetto è volutamente straniante, con la base pompata sui bassi che molleggia mentre su di essa si muove una guerra di urla laceranti che pare quasi di sentire una jam immonda tra Eyehategod e Sleaford Mods. A portare ancor più fuori strada ci pensa l’assolo heavy metal della disturbata Contempt, giusto per far capire che nemmeno nella comfort zone di genere si può stare così tranquilli, colpo di grazia in un album già di per sé fuorviante.

Mi chiedo solo se i fan delle due band siano pronti a intraprendere le stesse strade su cui Uniform e The Body li stanno portando. Sono pronto a scommettere di no.

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