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“Grace”, lo splendido saluto fugace di Jeff Buckley

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Memphis nel Tennessee è una città intrisa di cultura popolare americana, dalle nuvole che la sovrastano alle viscere del sottosuolo. Teatro dell’ascesa di Elvis Presley a idolo dei (e soprattutto delle) teenager, capolinea ultimo per il sogno di Martin Luther King jr., sede di quella Stax tanto cara agli amanti del soul, nemmeno le acque impetuose del Mississippi sono in grado di lavare l’onta di un passato schiavista, cagione di un immane spargimento di sangue. Tra gli innumerevoli segreti di cui è geloso custode, il fiume porta con sé quello della scomparsa di un ragazzo che in seguito, sarebbe stato definito “l’ultimo dei romantici”. Nientemeno.

La sera del 29 Maggio 1997, quello che pare assodato non sia stato altro che un fatale incidente, privava per sempre il mondo della portentosa voce di Jeff Buckley. Angelica, per certi versi androgina, lieve al limite della voce bianca eppure capace di farsi sonora come le trombe dell’Apocalisse. Forgiata prendendo a modello le vette auliche dell’amato Robert Plant, con le radici ben piantate in un secolare sostrato folk/blues, ma al contempo carica di quella fragilità e di quel male di vivere di cui suoi contemporanei quali Layne Staley e Chris Cornell, erano stati eletti portavoce generazionali.   

Jeff Buckley

Sul finire degli anni ’60 Tim Buckley, cantautore dotato ed eclettico, saluta la moglie in dolce attesa abbandonando l’assolata California alla volta della grigia New York. Finirà col guadagnarsi i favori della critica molto più di quelli del pubblico, ottenendo un vero riconoscimento solo dopo che un’overdose d’eroina ne avrà depennato il nome dalla lista dei viventi. L’ex compagna Mary non si perde d’animo, adoperandosi per non fare mancare nulla al piccolo Jeffrey Scott e iniziandolo precocemente al mondo delle sette note. Sarà però il patrigno Ron a farlo appassionare al rock e tutto quanto vi gravita attorno. Stufo del continuo peregrinare della famiglia per l’Orange County, ancora adolescente Jeff si trasferisce a Hollywood, dove frequenta il Musicians Institute e lavora in un albergo. Nel frattempo cerca di farsi notare nella sempre prolifica scena cittadina, rimediando però solo sporadici ingaggi come turnista. Seguirà quindi le orme paterne andando in cerca di fortuna dalla parte opposta del Paese.

Non stiamo parlando di cinema ma una coppia di Cohen gioca comunque un ruolo fondamentale in questo racconto. Il primo è Herb, ex-manager di Tim che si adopera per fare registrare al giovane musicista le prime demo. Sua anche l’idea di farlo presenziare a un tributo al defunto genitore tenutosi nella chiesa di Sant’Anna a NY nell’Aprile 1991, una performance straordinaria che farà drizzare le antenne a più di un talent scout. L’altro è il più noto Leonard, autore di quell’Hallelujah che nell’interpretazione presente su “Grace”, conoscerà l’apice della propria fama. Messosi in tasca un ottimo contratto con la Columbia, a metà del ’93 Buckley figlio è affidato alle sapienti orecchie di Andy Wallace, fresco di un’incredibile serie di successi in seguito al suo lavoro dietro al banco mixer per Nirvana, Sonic Youth, Helmet e Rage Against The Machine.

Buona parte del materiale registrato per quell’esordio destinato a diventare culto era già stato composto da tempo, tanto che a Jeff e agli amici Mick Grøndahl (basso) e Matt Johnson (batteria), scritturati contro ogni parere dell’etichetta, è sufficiente appena una decina di giorni per terminare l’ossatura dell’album. Un notevole contributo viene dato anche da Gary Lucas, chitarrista della Magic Band di Captain Beefheart e coautore di diversi brani. Durante la fase di arrangiamento e post produzione l’artista viene colto dal demone del perfezionismo, facendo slittare la data di uscita per diversi mesi. Quando finalmente “Grace” può essere distribuito nei negozi, pare che il fantasma della cattiva sorte di Tim abbia deciso di perseguitarne l’erede. Sebbene tutte le riviste del settore lodino la qualità del lavoro, segnalato come ottimo ascolto anche da nomi altisonanti quali David Bowie e Jimmy Page, inizialmente il pubblico mostra un generale disinteresse.

In effetti tenendo conto dello spirito di quei tempi, così desiderosi di ibridazioni tra sotto culture urbane e bisognosi di figure in cui potersi immedesimare, un’opera simile è difficilmente collocabile. Pur non potendo essere ascritta a quello che era allora il nuovo rock, è ragionevole pensare l’autore e i suoi collaboratori non fossero del tutto immuni alla sua fascinazione. Più che al tiro sostenuto di Eternal Life, che pure non avrebbe sfigurato su un album degli Screaming Trees di Mark Lanegan, è al farsi più vigorose dopo una partenza delicata ed eterea di canzoni come Mojo Pin e Lover, You Should’ve Come Over che dovremmo guardare. Ci sono poi le distorsioni improvvise e stranianti di So Real, uno tsunami di pathos ottenuto rievocando un incubo, un pianto sommesso che sfugge al controllo e va ad accarezzare la crisi isterica. Dream Brother lambisce terre d’Oriente e fa propria una psichedelia in voga due decenni prima, regolando i conti con quell’ombra paterna mai abbracciata ma nemmeno completamente respinta.

Sarebbe tuttavia fuorviante anche parlare di cantautorato, volendo con tale termine guardare al solco tracciato da artisti come Bob Dylan e Bruce Springsteen. In primo luogo perché non è riscontrabile alcuna velleità d’impegno sociale: quella di Jeff Buckley era una voce intima e personale, la trasposizione in musica d’un mondo interiore che anzi, cercava in tutti i modi di estraniarsi da quello tangibile. Non di meno perché le qualità vocali in gioco, erano davvero troppo ingombranti per non cedere alle lusinghe dell’autocompiacimento. Stiamo parlando innanzitutto di un grande cantante e interprete: si passa così da un pop rock con poche pretese come quello di Last Goodbye, a pregevoli riproposizioni attinte da un consolidato repertorio di standard. Forse è anche per quest’assenza di una manifesta volontà di rottura col passato che inizialmente, il disco fece breccia nel cuore degli addetti ai lavori molto più che in quello degli ascoltatori. Ve li immaginate Kurt Cobain o Billy Corgan mentre interpretano un brano liturgico in falsetto?

Per quanto possa risultare ovvio, non si può tacere come l’empireo formale ed emotivo di questo susseguirsi di immagini malinconiche, venga raggiunto nella titletrack. Una brillante invenzione chitarristica introduce uno struggente canto elegiaco. A tenere banco è l’amara consapevolezza della labilità della vita, mista al rimpianto per le cose che non potranno più essere: “And the rain is falling and I believe… My time has come. It reminds me of the pain I might leave… Leave behind.” Versi che si caricano delle tinte scure del presagio, alla luce della prematura dipartita di colui che li cantava. Quasi a voler dare credito al celebre detto secondo cui a morire giovane è chi è caro al cielo, è proprio ad esso che sembra rivolta un’incredibile serie di acuti, via via più lancinanti man mano che il finale si avvicina. Un pezzo immenso cristallizzato nell’eternità.

Ci sarebbe voluto un anno buono prima che la grazia del disco iniziasse a trovare un più corposo seguito di estimatori, anche se a conti fatti la sua fortuna è stata soprattutto postuma. Il resto fu una consistente sequela di esibizioni che portarono il titolare e la sua band a calcare palchi su palchi, sempre salutati da meritatissimi applausi. Australia, Francia e Inghilterra si sarebbero rivelate particolarmente entusiaste di questo cantastorie dal viso e la voce di cherubino. Le interviste e le apparizioni televisive mostrano come fosse poco incline al divismo, un attento e genuino appassionato di musica prima d’ogni altra cosa. Particolarmente interessante può risultare la visione del documentario “Amazing Grace”, rilasciato una decina d’anni fa. Di lui Andy Wallace avrebbe detto: “ Aveva l’equivalente musicale della memoria fotografica. Ricordava e conosceva tutto, da Charles Mingus ai Sonic Youth”.

Era probabilmente inevitabile il triste epilogo delle vicende umane e artistiche di Jeff Buckley, ne ammantasse di maledettismo la figura. Così come non mancano detrattori convinti del fatto che questa sia l’unica ragione per cui se ne parla ancora. Quale miglior modo per farsi una propria idea allora, se non (ri)ascoltare questa manciata di canzoni? Magari al crepuscolo, lasciando che la luce morente del giorno doni colori nuovi ai luoghi della propria quotidianità. Di meteore la storia della Musica ne è piena. Di anime fragili capaci di toccare le più recondite corde dell’umano sentire, nonostante siano state per sempre consegnate alle cure delle muse da tanto tempo, a mio avviso decisamente meno.

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