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Back In Time

Back In Time: FILTER – Title Of Record (1999)

L’anno è il 1999. Il vivacissimo universo alternative metal è dominato da due tipologie ben distinte di band: alcune, memori della lezione dei Korn, indugiano sul lato più rabbioso e cupo del genere, mischiando in un pastone non sempre digeribile rime rap, riff cafoni, montagne di groove e fastidiosissimi scratch; altre, invece, guardano con maggior interesse verso i suoni freddi e artificiali dell’industrial. I vari Powerman 5000, Orgy, Stabbing Westward, Spineshank e Gravity Kills raccolgono successi commerciali dando alle stampe album pieni zeppi di impressionanti muri di chitarre elettriche, sintetizzatori ultramoderni, ritmi digitali e idee scopiazzate alla bell’e meglio da Trent Reznor e i suoi Nine Inch Nails.

I Filter, capeggiati proprio da uno storico ex collaboratore del geniale autore di “The Downward Spiral”, il polistrumentista Richard Patrick, si apprestano a fare il loro ritorno sulle scene a distanza di poco più di quattro anni dal lavoro di debutto, il solidissimo “Short Bus”. Il nuovo album, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere quello della consacrazione definitiva; una raccolta di canzoni scritte, arrangiate ed eseguite con gusto e originalità, in grado di unire in maniera intelligente e aggraziata i paesaggi futuribili dell’industrial e l’immediatezza del mainstream rock più coraggioso. Un azzardo non da poco, quindi.

Il titolo del disco? “Title Of Record”. E già, sembra assurdo pensare che una delle opere più interessanti e innovative dell’alt metal di fine millennio abbia un nome così poco fantasioso. E forse potrebbe stonare anche l’accostamento appena fatto tra innovazione e Filter. D’altronde, tanti spunti contenuti all’interno di queste undici tracce è possibile andarli a recuperare altrove: l’aggressività dei Prong, la sensibilità melodica dei Jane’s Addiction (Patrick, tra l’altro, ha un timbro che in parte ricorda quello di Perry Farrell), un rapporto con l’elettronica e le drum machine mediato dall’esempio di Garbage e Smashing Pumpkins periodo “Adore”.

Eppure, è impossibile non notare immediatamente la forza e la peculiarità di “Title Of Record”: un suono fresco, limpido, dinamico e definito che caratterizza ogni singolo minuto del lavoro. Privo di naturalezza? Forse. Ma poco importa: siamo pur sempre in zona industrial. Anzi, è proprio questa leggera patina artificiale a rendere il tutto piacevolmente “novantiano”.

L’album è invecchiato maluccio, ma conserva pressoché intatto il suo fascino: gli influssi tribali dell’esplosiva Welcome To The Fold, i sali e scendi imprevedibili di Captain Bligh, le pulsazioni jungle della reznoriana The Best Things e il lento crescere dell’intensissima I’m Not The Only One sono ancora lì, a ricordarci del valore di un gruppo che, purtroppo, in seguito non sarebbe più riuscito a ripetersi a questi livelli.

E come non parlare della superhit dei Filter, la celeberrima Take A Picture? Richard Patrick trasforma l’opaco ricordo di una serata ad alto tasso alcolico in una semi-ballad che, tra eleganti percussioni etniche e stupende melodie sognanti, inizia ammaliandoci con soffuse atmosfere acustiche per poi abbracciare l’elettricità dello shoegaze più riverberato. Da pelle d’oca.

 

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