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Korn – The Nothing

2019 - Roadrunner Records / Elektra
alternative metal

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Tracklist

1. The End Begins
2. Cold
3. You’ll Never Find Me
4. The Darkness Is Revealing
5. Idiosyncrasy
6. The Seduction of Indulgence
7. Finally Free
8. Can You Hear Me
9. The Ringmaster
10. Gravity of Discomfort
11. H@rd3r
12. This Loss
13. Surrender to Failure


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The Nothing” spezza una spirale discendente che si è palesata con sempre più insistenza con l’idea (pessima) di ripercorrere i propri antichi fasti recuperando un suono che non ha più senso d’esistere e che sempre più gruppi dell’epoca rigettano come fosse un calzino sporco che si sono tenuti in bocca troppo a lungo. Cambiare è però proprio degli esseri umani, ed è un immenso sollievo constatare che la scelta di andare altrove è calata anche sulla testa dei Korn, padrini formali del nu-metal.

Non fraintendetemi, non ci troviamo dinnanzi ad un disco dal sound inaspettato: la tredicesima fatica in studio di Jon Davis e compagnia cantante però ha in sé l’opportunità di prendere tutti gli elementi che li hanno resi grandi (ed immortali) e finalmente utilizzarli non come se fossimo ancora nel 1999 bensì vent’anni dopo. Non era affatto scontato accadesse, dopo che “The Serenity Of Suffering” aveva riportato indietro di parecchi lustri le lancette dell’orologio regalandoci una stinta auto cover band che sembrava inevitabilmente perso mordente, idee e anche l’ennesima occasione di star zitta.

Ci sono elementi di ritorno, senza ombra di dubbio, ma se li sono giocati così tanto bene da finire affogati in una tormenta emotiva e dal suono apocalittico, che centrifuga cuore e mente (e per una volta Nick Raskulinecz non ha accoppato niente dalla sua postazione al banco mix, alziamo le mani al cielo). Fa male, “The Nothing” e non va nemmeno tanto per il sottile. Le chitarre di Munky ed Head sono di nuovo in sintonia totale e si giostrano una quantità di possibilità atmosferiche da cartellino rosso, sottobraccio con gli ormai immancabili strati di synth che viaggiano sotterranei in prospettiva, tra le silurate del basso fieldyiano, perso tra strafunkate e pedaloni progressivi e, di nuovo finalmente, un Ray Luzier che sempre mi è parso indigesto a scuotere le fondamenta con architetture ritmiche a tutta dritta.

Alternative metal, potremmo chiamarlo, togliendo quel vecchio nu che non serve più ad un cazzo. Davis poi è in stato di grazia, nota agrodolce poiché l’atmosfera che si respira nei suoi testi è quella riflessa dal dolore della perdita della ex-moglie avvenuta appena un anno fa. L’oblio e la disillusione si fanno carico di consapevolezze ferali e i testi si destreggiano tra le tante stanze di una vita fatta di rammarico ed orrore. Qui ha senso che le tinte si facciano scure, non c’è età che tenga. La voce è al massimo storico, le soluzioni sono tutto tranne che scontate, e quando decide di andare a fondo nell’abisso pare di essere dinnanzi a Satana in persona (con buona pace di Head e Fieldy).

The Loss stronca pesante come un elefante per poi finire in un corridoio tra Radiohead e soulness. Questo è un disco fatto di ritornelli scintillanti che danno la giusta misura del nuovo corso (tipo quello di Gravity Of Discomfort che sembra riprendere il discorso abbandonato eoni fa da Marilyn Manson o sulla gigantesca Cold), così The Darkness Is Revealing e le sue uscite tribali incuneate pop rapiscono; così ecco The Ringmaster che è collante di soluzioni strambe e passa da essere incudine a piuma vocale per tornare a pesare una tonnellata; nella radura elettronica di H@rd3r si fa spazio altro dolore e domande senza una risposta tuffandosi in un tritacarne extreme metal dopo aver molleggiato in sicurezza su una quantità di raddoppi vocali a tripla elica, assolti dal viaggio in un tunnel psych-jungle; Idiosyncrasy è abisso formale e la voce si piega brutal prima di involarsi in cielo accompagnata da cori e roboanti sincretismi in levare, contrappeso della sicurezza che Dio stia ridendo del frontman e delle sue infinite sventure (come l’avranno presa quei due?).

Non pensavo mi sarei di nuovo trovato a dire che un album dei Korn mi avrebbe tritato. Ben venga lo stupore.

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