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“You Fail Me”: quando le aquile diventano avvoltoi

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Ormai è chiaro: nella mia vita gli incontri (musicali) sono quasi sempre stati figli del caso, come deus ex machina il negoziante di dischi, o un suo collaboratore. Perché per i Converge non sarebbe dovuta andare nello stesso modo? Chissà che comprai griffato Epitaph per far sì che quello spilungone dietro al bancone mi dicesse “Sono usciti oggi questi, per me ti piacciono”. E perché non credergli, d’altro canto? Uscii dal negozio stringendo in mano la mia copia di “You Fail Me”. Altro giro, altro centro.

Parlando della band di Salem con una mia amica – la quale è riduttivo dire che ami la band di BannonBallou, Newton e Koller poiché è qualcosa di ben più radicato, sentito ed estremamente profondo – siamo giunti ad un’unica consapevolezza: i Converge sono una questione di cuore. Non è scontato dirlo, nemmeno a mente fredda e col senno di poi. Quando si parla dei quattro del Massachusetts ci si imbatte in imbarazzanti discussioni circa il loro suono (con tutti i simil produttori a scipparne i lembi della tovaglia per le loro robette), la violenza della proposta, della tecnica dei componenti – forse la più bassa se confrontata con quella di altre formazioni pari genere e statura – di questo e di quello ma mai, e dico seriamente mai senza rischiare di cadere in sterili esagerazioni, di quanto profondi essi siano. Di quanto la loro musica sia spirituale, nemmeno in senso tanto lato, della profondità abissale che si incontra quando la betoniera elettrica degli strumenti va a scontrarsi con il latrato disumano di Jacob.

Fino a questo momento era risultato difficile trovare qualcuno fuori dalla sfera emo/sadcore che utilizzasse parole per mezzo musica che facessero male così a fondo, con un piglio poetico proprio di ben altri generi e che dai suddetti ci si aspettava di sentirlo accompagnato, e invece c’è una tempesta qui, una tempesta elettrificata nelle cui spire corrono lacrime e sangue, che è quello della mano palmo in fuori e polso ricucito che svetta in copertina, o lo schizzo intorno al tondino del CD coronato dalla frase “Vengeance in love”. Quanto il peso dell’esistenza possa pesare sulle spalle anche del più inveterato degli hardcorer: “You Fail Me”. Quanto la rabbia possa esternarsi restando interiore in un loop infinito di dolore autoinflitto in assenza di alterità, impossibilitando la persona ad ignorarne l’esistenza, finendone vittima: “You Fail Me”. Il disco migliore dei Converge: “You Fail Me”.

Quando sento dire che il loro capolavoro è “Jane Doe” scuoto la testa mestamente. Senza nulla togliere a quel gran discone che è, la differenza è palese sin da subito: il flusso musicale si fonde letteralmente in un’unica soluzione venefica, al punto che spesso la dicotomia strumento/voce si perde, come se fosse un monolite nero come la notte più nera e fin dal primo ascolto i miei occhi si sono riempiti di scenari strazianti: le droghe e l’abisso che incastrano i soggetti senza volto di Drop Out e quel bridge di chitarra che fa lacrimare dai tagli aperti nella mente, un cuore che s’infrange in mille pezzi quando il mare lurido di First Light si abbatte sulle coste di Last Light, continui inizi e finali senza fine si stagliano nell’orizzonte stretto tra i palazzi asfissianti di Hope Street, incuneata in una città senza nome né anima, e poi la “mia” Heartless che al tempo divenne il mio mantra isolazionista, la mia personale giusta evoluzione metafisica di Isolation dei Joy Division e al pari di Lost Cause di Beck, perché i Converge si ritagliano un posto dove uno non se lo aspetterebbe e nei tagli imperfetti a lama seghettata lacerazioni riempiti dalle colate di cemento del pezzo che dà il titolo al disco e fa gonfiare lo stomaco d’acqua bevuta nell’apnea di sentimenti al laudano e sembra non finire mai, mai, mai per poi incontrare l’ombra funerea di In Her Shadow, un brano acustico e toccante nel bel mezzo di un oceano piagato alla furia di déi senza nome. Vi rendete conto? Acustico. Toccante. Qui. Chi altri avrebbe osato tanto?

Nessuno, e poi tutti, e poi ancora nessuno. Perché così tanta emotività lo stesso anno l’avrebbero usata solo i Dillinger Escape Plan, su quel “Miss Machine” che al paio con questo cambiò tutto. Nel bene ma, soprattutto, nel male. Intoccati ed intoccabili, però, perché sempre quei famosi nessuno poterono tanto. No, proprio no. Ci han provato, scioccamente, e hanno fallito, ovviamente.

Il “punk” è una questione di cuore, e a ricordarlo a tutti negli anni ’00 furono proprio i Converge di “You Fail Me”. Il punto più alto e la fine di un viaggio, che lo vogliate oppure no. Smettete dunque d’affannarvi a ripercorrere quel sentiero, vi svelo un segreto: non ce la farete mai.

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