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Thurston Moore – Spirit Counsel

2019 - Daydream Library Series Record Label
noise / avant rock

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Tracklist

CD1
1. Alice Moki Jayne

CD2
1. 8 Spring Street

CD3
1. Galaxies


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Immarcescibile, irrefrenabile, incontenibile Thurston. Che poi a voler leggere tra le righe forse ci potreste trovare un “tremendamente noioso”. Non me ne vogliate voi, che all’ex Gioventù Sonica avete ormai votato i vostri ascolti imperituri, che vi fate andar bene tutte le piroette in quel calderone rumoristico che lui e diversi altri anche meno bravi e tracotanti idee di lui hanno contribuito a far crescere, espandere e infine a collassare su se stesso.

Dopo la maestosamente magnifica prova di quel gioiellone da parure sentimentale che fu “Demolished Thoughts” (ancora oggi a distanza di otto anni uno dei miei dischi preferiti in assoluto) parrebbe proprio che quella che sembrava essere l’inesauribile vena artistica (leggi spesso artistoide) di mr. Moore si sia definitivamente seccata. Da evoluzione a devoluzione fino al ritorno ad una formula sonicyouthiana da sindrome di Peter Pan coi suoi due successivi album, peggio ancora con Chelsea Light Moving che fin dalla composizione di genere del gruppo parevano una cover band senza cover della sua creatura leggendaria. E poi tutti questi album che si direbbero sperimentali, sì, ma solo se fossimo nel 1996.

Che poi “Spirit Counsel” è un’accozzaglia di un sacco di cose già viste, straviste, rivisitate, rimaneggiate, masticate e digerite proprio da Thurston in persona, quindi brutte proprio no, la classe non è acqua ma vi è immersa assieme ad una radio collegata alla presa con tutte le conseguenze elettriche del caso. Sempre capace, sempre sul pezzo, con quel gusto che in pochi hanno e forse mai avranno, ma compresse tutte assieme in tre dischi che da soli fanno due ore e mezza di musica che pare buttata lì a caso con il solito fare arty che francamente, quantomeno al sottoscritto, ha fracassato i cosiddetti. Scontroso non lo è più, ma alla sua età glielo perdoniamo anche, il punto è che una simile operazione messa su disco lascia un po’ il tempo che trova, dato che parliamo più di una sorta di performance, che poi qui è sinonimo di quell’accozzaglia di cui sopra, e che forse ad oggi meriterebbero semplicemente d’essere viste live, o con un supporto video.

Invece, fedeli alle vecchie tradizioni dell’era moderna, piazzate le tre tracce in altrettanti dischi la giostra può cominciare a girare e lo fa con un tributo alla vedova Coltrane Alice, della madre di Neneh ed Eagle-Eye Cherry Moki e dell’artista/attivista Jayne Cortez. Una sola traccia per un’ora e mezza di quello che potremmo tranquillamente chiamare il “greatest hits” dell’intero corpus thurstoniano, tra lunghe strisce noise che rasentano alcune situazioni black metal (del quale ormai sappiamo essere ghiotto il chitarrista) che si lanciano in un indie-rockin’ senza infamia e senza lode per poi tornare sui propri passi rumorosi a costruire l’ennesimo contorcersi della materia ripiegata sempre su se stessa, e come tutto ciò possa riportare alla mente l’operato delle tre grandi donne dell’arte che danno il titolo al primo capitolo è probabilmente noto al solo Moore, non c’è linear note che tenga, a me pare un tributo a se medesimo, mi sbaglierò. Difficile non skippare, ancor peggio mantenere viva l’attenzione.

Per la legge del contrappasso 8 Spring Street è più contenuta e forse anche per questo, molto più ispirata. Oppure essendo omaggio al Maestro Glenn Branca – al quale Thurston deve più o meno tutto – l’impegno impiegato per tessere la tela melodica di quest’altra mezz’ora di musica è salito di gran lunga. Le chitarre si sovrappongono sporcandosi in crescendo in una labirintica imposizione dello strumento, riempiendo e svuotando gli spazi alla bisogna, sviaggiandosela pesantemente in un trip ora delicato, ora sanguinolento, ora sognante e si scolpisce duramente nelle orecchie per fierezza ed epicità, delineando un ritratto a tutto tondo di colui che cambiò le regole di uno strumento quando sembrava non si potesse più fare. Fa tutto da solo qui l’ex-SY e lo fa bene davvero lanciando la sua sei corde a rotta di collo e facendola gridare e sussurrare. Non che questo faccia venire meno il senso di deja-vù.

Purtroppo non tutto ciò che è dedicato a Branca è oro e quindi non luccica. Galaxies, piece orchestrale per dodici chitarre ispirato ad un poema di Sun Ra, è quel che è: un incidente in galleria, tra le cui lamiere elettriche si trovano scampoli di musica vera, perlopiù concreta e chiusa a guscio negli atti performativi del padre spirituale del Nostro, e che, vado a ripetere, messi su supporto fisico perdono non solo di significato ma anche di sensatezza. Un’ora o poco meno e pure registrata male, il fatto che la cosa sia voluta non salva la baracca.

Ancora una volta esco scontento dall’ascolto dell’ennesimo ritorno in scena di Thurston Moore che pare avvinghiato inesorabilmente al suo passato, incapace di guardare al futuro. Il mio timore è che sia un virus legato alla propria former band, e a sentire i singoli della sua ex-consorte Kim Gordon pare esserne affetta anche lei, una malattia che porta a gridare a gran voce “sono il più grande ed unico artista noise sulla faccia della Terra”. Proprio per questo il mio preferito è e sempre sarà Lee Ranaldo.

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