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“Rain Dogs”, l’interminabile sbronza struggente di Tom Waits

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Nemmeno lo sfrontato e rumoroso edonismo degli anni ’80 poteva turbare l’Orco di Pomona, ben lungi dal porre fine alla propria interminabile sbornia. Così come neanche l’essere zavorrato dallo status di leggenda vivente, sarebbe mai stato in grado d’imbrigliarlo a un discorso musicale monodimensionale. Benché all’orizzonte si profilassero perlopiù capelli cotonati e tastiere, l’iperattività che ne aveva già caratterizzato il decennio precedente, continuava a seguire binari tutti suoi. Come un vocabolario sonoro vivente, Tom Waits proseguiva imperterrito nell’elargizione di lezioni di stile, scomponendo e adattando alla propria visione, elementi di tradizioni appartenenti a tempi e luoghi anche assai distanti tra loro.

Ancora una volta musica, poesia e teatro, si compenetravano fino ad essere pressoché inscindibili. Scorrendo la lista di nomi accreditati in corso d’opera, non possono fare a meno di saltare all’occhio Marc Ribot, Tony Levin e addirittura Keith Richards. Anche in un’epoca di scenografie colorate e sorrisi smaglianti, l’interesse rimaneva ben focalizzato sugli emarginati, gli sconfitti, gli sregolati. Il diavolaccio che s’era preso l’anima buona di Robert Johnson si palesava in Big Black Mariah e Gun Street Girl, mentre il Nostro guardava all’Europa dell’Est con Cemetery Polka, e asserviva il surf rock al racconto di vite alla deriva di Jockey Full Of Bourbon. Sentori del periodo in cui sono avvenute le registrazioni sono rintracciabili in Hang Down Your Head e Downtown Train, quasi stridenti nel loro contrastare con un numero da vaudeville come Tango Till They’re Sore.

Tra immancabili capatine nel jazz e inguaribile predisposizione al folk, senza mai un calo d’ispirazione né incappare in un vestito che non gli stesse bene addosso, quella voce inconfondibile continuava a fornire vividi e poetici resoconti dei bassifondi. Racconti marginali sottratti all’oblio, un po’ come la coppia immortalata in copertina, un singolo scatto in grado di evocare contemporaneamente malinconia, riso beffardo e ricerca di calore umano. Queste le parole dell’autore circa il significato del titolo: “A Manhattan, dopo che ha piovuto, si vedono in giro tutti questi cani che sembrano smarriti. La pioggia lava via gli odori. Non riescono più a orientarsi, a ritrovare la strada di casa. Tutte le persone di cui canto sono tenute insieme dal modo fisico con cui condividono dolore e disagio”.

La città di New York, nella quale l’artista si era trasferito per lavorare all’album nel piovoso autunno dell’84, fa capolino tra le note con tutta una serie di rumori, spesso appena percettibili, registrati ad hoc. Ma la precarietà delle condizioni esistenziali dei disadattati, da sempre linfa vitale non solo dell’immaginario waitsiano, bensì delle arti tutte, è troppo universale per rimanere legata a un luogo o a un periodo preciso. Alla fine che il soggetto sia una ciurma strampalata o un manipolo di ubriaconi, giovani diseredati o anziane signore abbandonate a sé stesse, il sottile filo della ricerca di una felicità sempre inseguita e mai raggiunta, finisce per accomunare tutti quanti.

“Rain Dogs” è un disco che riesce a intrattenere e struggere come pochi altri, forte di una straordinaria capacità di calare l’ascoltatore nella situazione, senza mai azzardare un giudizio. Quando la “normalità” è un lusso, l’eccesso diviene inevitabilmente rifugio privilegiato. Saperlo raccontare con profonda empatia ma senza cedere al pietismo, tantomeno al disprezzo, è veramente una dote rara e preziosa.

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