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“Spirit Of Eden” dei Talk Talk: la conquista dell’essenziale

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Realizzare un album che non sia di un’epoca ben riconoscibile. Che sia senza tempo.

Tempo fa ho fatto un sogno. Mi arrampicavo su quella che sembrava essere una torre o una parete di roccia verticale, impervia. Avanzavo a fatica, a volte perdendo la presa ma, anziché cadere, rimanevo come per magia sospeso a mezz’aria. Finalmente raggiungevo la cima, sulla quale svettava questo edificio grigio scuro, compatto, come un monolite, alla base del quale si aprivano le porte di un ascensore. Salivo su e scoprivo di essere sulla terrazza di un hotel di lusso; intorno a me, chioschi, piscine, musica, balli, gente vestita in abiti eleganti. Appena uscito dall’ascensore mi raggiungeva un amico di vecchia data. Era un contesto anche attraente, coinvolgente, “figo”, per intenderci. Eppure, rimaneva in me un’inquietudine, un’irrequietezza di fondo, conscio del fatto che tutto ciò che avevo di fronte altro non era che illusione, velo di Maya. Un pulviscolo giallo che aleggiava nell’aria mi confermava di essere vittima di un incantamento, che mi distoglieva da ciò che realmente importava: la ricerca della Verità (sì, così, con la v maiuscola).

Nello scrivere di ‘Spirit of Eden’, tutto questo sogno mi ha fatto pensare alla parabola dei Talk Talk e in particolare del compianto Mark Hollis. L’iniziale scalata verso la notorietà, sorretti dalla mano benevola ma infida dello showbiz; il raggiungimento della vetta e del successo; la mondanità, il “rumore”; l’insopprimibile desiderio di andare oltre, scostare il velo per vedere cosa c’è al di là, e passare oltre, raggiungendo la meta o forse solo un’altra, necessaria tappa, coadiuvati da spiriti affini e alleati (come un Tim Friese-Greene, in questo caso).

L’ascesa vertiginosa e la caduta più profonda sembrano passi obbligati per poter poi imboccare la strada della vera ricerca personale. I due anni tra il 1986 e il 1988 sono tormentati e cruciali per Hollis. Costretto in un meccanismo che gli stava stretto e che gli era da sempre parso avvilente, smaniava per spezzare le catene e assecondare ciò che era una necessità personale, ancor più che artistica, le cui coordinate erano tuttavia ancora indistinte. Questioni famigliari complesse rendevano il quadro ancora più fosco, senonché la scrittura si manteneva fervida e ispirata: nel 1986 usciva ‘The Colour of Spring’ che, ancor timidamente ma con una certa fermezza, mostrava la direzione di un percorso diverso, alieno a logiche di profitto volte esclusivamente alla riproducibilità meccanica di un prodotto di successo.

Photo: Rob Verhorst

Forti dei proventi straordinari dell’ultimo album, i Talk Talk ottengono dalla EMI un budget generoso nonché controllo e confidenzialità totali sul processo creativo per il successore di ‘The Colour of Spring’. Manna dal cielo per Hollis, che ottiene carta bianca per squarciare la propria stessa tela; compiere un salto nel buio di una musica delle sfere tenue, rarefatta e inaudita, ma capace di impetuosi slanci emotivi.

Chiunque abbia ascoltato questo album non lo ha conosciuto, ma riconosciuto. Pur nella sua complessità e non immediata fruizione, comunica attraverso canali occulti ma presenti da sempre, archetipici. È conoscere uno spirito affine ma in un contesto esotico e spiazzante. È un ascolto che non cambia sé stessi né stravolge, ma rende più consapevoli e ricettivi. L’evoluzione impone disciplina e rigore, e passa per un cambiamento anche formale. Da qui la necessità di imporre un modus operandi quasi dispotico nella lavorazione del disco, con Hollis e le sue suggestioni soli in cabina di regia e Tim Friese-Greene in sala comandi a supporto tecnico ma anche compositivo. Lee Harris e Paul Webb sono in veste perlopiù esecutiva, assieme a uno stuolo di illustri ospiti a dare spessore e profondità agli arrangiamenti.

La gestazione è lunga: un anno e mezzo nel corso del quale la gran parte della mole enorme di materiale prodotto viene messa da parte per estrarne solo l’indispensabile, a volte un unico accordo o nota rispondenti a quel principio ultimo, essenziale, che tanto ossessionava Hollis. Al contempo, le direttive erano tante vaghe quanto stringenti: nessuno spartito, mano libera sulle progressioni e sulle intenzioni da dare alle composizioni, fatte salve alcune istruzioni di massima sull’armonia. Un omaggio e una sfida rispetto a dei riferimenti imprescindibili: Miles Davis, John Coltrane e “cose più belle di me”, deve aver pensato Hollis. Fautori di una rivoluzione che, passando per la fase modale, aveva riscritto il jazz e la musica tutta, scarnificandola e riducendola ai suoi termini più puri e spirituali.

Nessuna direzione. Magari suoni per giorni e alla fine sfrutti solo alcuni secondi di materiale prodotto. Così vai alla base di ciò che la musica è e dovrebbe essere: approccio e non tecnica.

Il risultato è un album dalla forza quasi medianica nel suo persistente obiettivo di inserire ogni tassello nel suo posto giusto, nella sua crociata affinché ogni battuta abbia esattamente le note necessarie, né più né meno.

Impara a suonare una nota e non ne suonare un’altra, a meno che tu non abbia una buona ragione.

È sconcertante, infatti, come la libertà più assoluta nel principio compositivo e creativo e l’estrema finezza e attenzione ai dettagli si fondano con tale naturalezza nel disco, riproducendo l’esperienza di un caos pronto a esplodere ma tenuto sotto controllo.

L’apertura à la Jon Hassell di The Rainbow è già una rivoluzione copernicana rispetto al catalogo della band fino ad allora. La durata del pezzo da sola suggerisce un approccio all’ascolto totalmente differente: due minuti di pura intro atmosferica seguiti da una strofa dal sapore blues, quindi un cambio sfuggente che presto si inabissa in un oceano di silenzio, infine un’outro minimalista e sospesa. Dura un battito, giusto il tempo di ridare slancio a un assolo di armonica e quindi al crepuscolo iniziale. Senza soluzione di continuità ci si ritrova in Eden, un’alba introdotta da battiti ritmici e da una chitarra terzinata, in anticipo su una progressione armonica che suggerisce ancora qualche aggancio con ‘The Colour of Spring’.

Desire è centro formale e ontologico dell’album, summa delle sue caratteristiche cardine. Come un bisogno presente ma latente, che non sembra imporsi prepotentemente, la tensione monta poi in un crescendo inesorabile, che esplode quasi cacofonico come una smania che non puoi controllare né soffocare. Il brano deraglia quindi in una babele sonica che non può che concludersi con la realizzazione di quel desiderio. Per poi ricominciare con un altro ciclo al prossimo bisogno. Con Inheritance si passa a un’atmosfera di pura estasi e distensione dei sensi, pur con un’inquietudine di fondo punteggiata dalle incursioni erratiche di clarinetti e corni inglesi e da un’insofferenza ritmica mai doma.

Per un album “incommerciabile” come questo, I Believe in You, con il suo andamento lineare, la sua coerenza interna e dinamica omogenea è sembrato alla EMI l’unico appiglio per realizzare un singolo, che comunque andò maluccio. L’album fu in ogni caso la pietra dello scandalo che vide band ed etichetta contrapposti in tribunale, in una disputa che portò allo scioglimento del contratto tra le due parti, complice anche il rifiuto di Hollis a portare il disco in tour.

Mi piace l’idea di suonare, ma non di esibirmi o registrare. Mi piace girare intorno a un’unica nota, lavorando solo sui livelli di volume e timbro.

L’album non poteva che concludersi con un esperimento di silenzio come Wealth, rotto solo dalle accorate invocazioni di Hollis, su un tappeto di organo e su radi accordi di chitarra.

Inconcludente”. “Pretenzioso”. “Scialbo”. Come spesso accade con ciò che è nuovo e inatteso, l’album richiese una certa pazienza per crescere nelle menti e nell’animo di chi decise di dedicargli il proprio tempo. La ricompensa cresce a ogni ascolto, alimentando l’aura di mito intorno a un disco che ti parla, sussurra, vellicando pieghe che si pensavano chiuse e inaccessibili, e che si rivela solo a chi lascia che scavi pian piano un varco dentro di noi. Una nuova percezione è ciò che ha trovato, dopo una comprensibile titubanza, chi è arrivato in fondo al disco appena uscito. Sensazione condivisa dai musicisti coinvolti nel progetto, cui Hollis impose sessioni di ore infinite quasi al buio, con comunicazioni ridotte al minimo e tracce di riferimento minimali nei timpani.

La condizione ideale per ascoltarlo è da soli, in un’atmosfera calma, silenziosa. Il livello del volume non dovrebbe mai andare oltre quello degli strumenti se venissero suonati in quella stanza.

Dopo la rescissione del contratto con la EMI, l’artista ripropose l’esperimento nel successivo ‘Laughing Stock’ (1991), altrettanto ostico del predecessore, sebbene più energico, fino alle estreme conseguenze raggiunte sette anni dopo nell’omonimo, bellissimo e ultimo album a proprio nome, entrambi editi dalla Polydor.

La sua scomparsa nel febbraio di quest’anno è avvenuta in circostanze simili a quelle che hanno contraddistinto tutta la sua ricerca artistica. Nella più assoluta discrezione, alla ricerca del silenzio perfetto. Un silenzio dietro al quale si nasconde un artista dalla classe cristallina e senza tempo.

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