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“(What’s the Story) Morning Glory?”, il derivativo, divisivo, gigante pop degli Oasis

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Non è facile raccontare un disco contemporaneamente così epocale e divisivo come (What’s the Story) Morning Glory? degli Oasis, perché troppo spesso la produzione musicale della band di Manchester è finita in secondo piano rispetto agli eccessi e le intemperanze dei Gallagher, al lungo evolversi di un rapporto diventato artisticamente fratricida, ma anche alle accuse di revivalismo beatlesiano e alla battle of britpop coi Blur di Damon Albarn, una faida costruita talmente bene dai tabloid britannici da concretizzarsi nella realtà.

I primi vagiti di quel fenomeno musicale e commerciale tanto clamoroso da scomodare il termine oasismania, con un riferimento tutt’altro che implicito alla beatlesmania, si vedono già un anno prima di (What’s the Story) Morning Glory?, quando Noel e Liam, insieme a Paul “Bonehead” Arthurs, Paul “Guigsy” McGuigan, Alan White e Tony McCarroll, riescono a intercettare l’urgenza di qualcosa che si discosti dal grunge imperante in quegli anni. È l’agosto del 1994: gli Oasis debuttano con Definitely Maybe.

Con Definitely Maybe, passa alla storia l’immagine di due ragazzi della working class capaci di svoltare grazie alla musica e in particolare con una formula che può apparire superficialmente semplice, ma in realtà tradisce un talento compositivo già limpido: gli Oasis, infatti, sanno inserirsi nella zona grigia fra pop e rock con melodie adesive e ritmiche universali, con chitarre a tratti un po’ grezze e l’atteggiamento delle rockstar con la faccia da culo, che ben si sposa con l’animo insolente e quella strafottenza tipicamente british che tuttora contraddistingue i due mancuniani.

Oasis

Il successo conseguente è già notevole, ma non è ancora l’apice: se – per citare NoelDefinitely Maybe veicola l’idea del sogno di essere popstar in una band, poco più di un anno dopo (What’s the Story) Morning Glory? rappresenta la materializzazione di quello stesso anelito.

Di fatto, però, l’arrampicata degli Oasis verso la consacrazione su scala planetaria è tutt’altro che lineare: le parti vocali di Wonderwall e Don’t Look Back In Anger sono oggetto di un’aspra contesa fra i due fratelli e, poco più tardi, il pomo della discordia diventa, per motivi simili, Champagne Supernova. Per tale ragione, le registrazioni vengono interrotte e riprendono solo dopo tre settimane: senza considerare il lavoro di post-produzione, quindici giorni sono sufficienti per completarle, in un clima sorprendentemente disteso. Ed è curioso come un altro litigio sia (probabilmente) decisivo anche per la scelta di non ritrarre i Gallagher a Berwick Street, Londra, nella foto che poi diventerà l’artwork dell’album.

Nonostante le tensioni, già in aprile la strada sembra tracciata: gli Oasis raggiungono per la prima volta la cima di una classifica di vendita con Some Might Say, successivamente incluso nell’album, inaugurando un’irripetibile striscia positiva di primi estratti in vetta alle chart lunga dieci anni. Some Might Say, un po’ l’archetipo della canzone degli Oasis, con chitarre rock asservite a melodie accattivanti e un assolo finale misuratissimo, diventa singolo di lancio de facto, ma il prescelto per questo scopo era inizialmente un pezzo un po’ più ruvido come Roll With It.

Stando alla prassi, il singolo di lancio avrebbe dovuto anticipare di tre settimane l’uscita dell’album, ma la pubblicazione del brano è prevista per il 14 agosto, ben un mese e mezzo prima di ““(What’s the Story) Morning Glory?”. Spettatori interessati sono i Blur, che inseguono una altrettanto rapida consacrazione dopo il successo di Parklife del 1994, e la Food Records che, scegliendo la stessa data per diffondere Country house, dà l’impressione di voler sfidare direttamente Noel e Liam. Il clamore mediatico è impressionante: è l’inizio della battaglia del britpop. A dire il vero, le due band, nell’estate del 1995, non sono ancora arrivate allo scontro frontale, ma la stampa di settore – e non solo – diventerà la cassa di risonanza per un dualismo che ricorderà da vicino quello tra Beatles e Rolling Stones. Emblematico, in tal senso, è il titolo scelto dal numero di NME del 12 agosto: “British heavyweight championship: Blur vs Oasis”.

I Blur riescono a vendere di più con Country House – ma è una vittoria di Pirro: la partita si gioca essenzialmente fra i due album e l’impatto commerciale di (What’s the Story) Morning Glory?, rispetto a “The Great Escape”, è devastante, probabilmente irripetibile: un giorno dopo l’uscita, il pubblico si accaparra le copie del disco al ritmo di due per minuto. Dopo una settimana, nel Regno Unito, solo “Bad” di Michael Jackson aveva venduto di più. Ma non c’è da stupirsi: gli Oasis hanno ulteriormente ammantato di pop i suoni di Definitely Maybe, con i bridge al servizio di ritornelli – che lo si voglia o no – indimenticabili e trasformando le melodie a presa rapida in autentici inni per tutte le occasioni e per chiunque.

Alla fine, i brani in (What’s the Story) Morning Glory? sono dodici, ma gli Untitled (leggasi anche The Swamp Song 1 e The Swamp Song 2) sono solo riti preparatori a due singoli: il già menzionato Some Might Say e l’incredibile Champagne Supernova, il cui cantato risulta tanto solido da rendere quasi marginale il contorno strumentale, che pure regala un’atmosfera leggermente sospesa, un assolo ancora funzionale e un lento sfumare verso la conclusione. Altri due singoli sono stipati in terza e in quarta posizione, rendendo l’inizio praticamente fulminante: Wonderwall, tra i pezzi pop più forti e simbolici degli anni novanta, e Don’t Look Back in Anger, uno dei momenti più fulgidi forse di tutta una discografia e manifesto del grande pop, dall’attacco all’assolo di chitarra, passando per la batteria che precede l’ultimo celeberrimo ritornello, dotato di una forza disarmante. Segue Hey Now!, un altro pezzo archetipico dei fratelli Gallagher, ma non paragonabile ai due precedenti.

Completano il lotto la ballad dedicata all’amico Richard Ashcroft dei Verve (Cast No Shadow), il ritmo ciondolante inverosimilmente catchy di She’s Electric e Morning Glory, l’ennesimo singolo indovinato. Un po’ più potente rispetto agli altri, Morning Glory è il sesto estratto dall’album: una cifra astronomica, che certifica l’efficacia dell’operazione successo. Nel box set che segue di due anni l’uscita ufficiale dell’album, c’è spazio per Underneath the Sky e una manciata di altri brani, fra i quali svettano distintamente Acquiesce e The Masterplan, che in quel periodo possono addirittura essere considerati dei semplici lati B.

Derivativo, seppur meno di quanto vogliano far credere i detrattori, ma universale come pochi altri dischi nella storia, (What’s the Story) Morning Glory?è un po’ il sogno di chiunque voglia fare pop (rock): raggiungere ogni angolo del globo terracqueo, racchiudere il senso di un’espressione (britpop, appunto) – un genere, se volete – e diventare uno dei simboli più rappresentativi di una nazione e di una decade musicale. Osannato dalla critica prima e forse troppo sottovalutato dal pubblico in epoca successiva, (What’s the Story) Morning Glory? segna l’inizio di un periodo di gloria, culminato coi duecentocinquantamila di Knebworth in due giorni (a fronte di una richiesta di biglietti dieci volte maggiore: ennesimo record), che gli Oasis non rivivranno mai più. E bollarlo come scarso o sopravvalutato soltanto per la sua immediatezza significa ignorare, oltre alla sua portata storica, anche una tecnica compositiva straordinaria, perché trovare un album pop che metta in fila sei singoli e quattro brani uno più forte dell’altro è impresa decisamente ardua.

Oasis

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