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Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen

2019 - Ghosteen Ltd.
songwriting / gospel

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Tracklist

Part One
1. Spinning Song
2. Bright Horses
3. Waiting For You
4. Night Raid
5. Sun Forest
6. Galleon Ship
7. Ghosteen Speaks
8. Leviathan

Part Two
1. Ghosteen
2. Fireflies
3. Hollywood


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Buco l’anteprima mondiale di “Ghosteen”. Sto andando a lavoro e sudo freddo. Evito l’internet, non voglio leggere stronzate. Non voglio sapere, perché per sapere, per capire Nick Cave devo evitare i pareri altrui, o almeno, quelli di massa. È così per tante cose, ancor di più per lui ed i suoi Bad Seeds, quasi fosse una questione spirituale. Ecco: spirituale. Già ci siamo.

Ad un certo punto uno dei ragazzi della residenza universitaria mi mette sotto al naso un brano da colonna sonora di Cave ed Ellis. Trasalisco. Lo fai apposta, universo? Allora io gli faccio ascoltare Push The Sky Away, il brano. E penso. Penso che tra poche ore sentirò la fine di un viaggio iniziato lì e passato attraverso il tormento, fino a raggiungere l’Altrove.

Dormo poco, mi sveglio e la prima cosa che faccio è metterlo su, non faccio nemmeno colazione, la posso fare tranquillamente domani, o tra alcune ore. Che importa? Il respiro si blocca, tutto si ferma, attendo l’attacco e sono agganciato. Subito. Non necessito di più di dieci secondi per capire che le immagini che si dispiegano dietro ai miei occhi sono quelle del Dorè con Dante che guarda alle schiere angeliche, alla strada verso una luce inarrivabile, il massimo divino. Cave esce alla luce del sole e guarda nello stesso punto, e là vede qualcosa che nessun altro vede. Che nessun altro può raccontare, dal Purgatorio (“Push The Sky Away”) all’Inferno (“Skeleton Tree”) e, infine, il raggiungimento dell’agognata magnificenza della libertà, in un’inesorabile mistura alchemica dei due viaggi precedenti.

Ghosteen” è un gospel, il canto per eccellenza per ringraziare l’aria di essere entrata fresca nei polmoni a ripulirli dal sangue e dalla polvere, nel paesaggio bucolico della (terrificante) copertina, circondato da una mitologia autografa fatta di “fantasy stories”, impersonalmente private, storie che ne raccontano altre e la loro genesi, storie d’amore che per una volta è una sicurezza, non una ricerca disperata, di perdite innestate ormai nel proprio quotidiano, di cambiamenti. Le mani al cielo, e il mondo si immerge in un liquido amniotico che introduce un Cosmo sotto forma di arie leggiadre, pesanti, importanti. Significative.

Spinning Song non smette di spalarmi merda dritta nel cuore, sento il nodo alla gola mentre il racconto di un Re (del rock’n’roll) passa dalla vita alla morte, lasciando la Regina col cuore infranto, e io con lei. L’altalena è ferma eppure riesco a vedere il mondo di Cave in tutte le sue prospettive, i con i cori che la spingono più in alto, tornano di continuo, inchiodano il piano di Bright Horses alla croce di in una cattedrale irrorata dai raggi del freddo sole d’inverno nella convinzione di un ritorno (“But my baby’s coming home now, on the 5.30 train”, inevitabili lacrime), nella sua attesa che sembra non sciogliersi mai e la sua speranza che s’indurisce sorridente su Waiting For You (“Waiting for you, to return, to return, to return”, la voce roca e appesantita) quasi aggrappandosi ad un pensiero fisso. Le stelle si squagliano sinteticamente 70’s nella scala verso il cielo, i bambini che la costruiscono e che chiamano, Nick che declama incolore e fa la voce grossa, fermo lì, a guardare, e ancora i cori che ascendono e portano a quella certezza d’amore che è Leviathan, e qui sembra vecchissimo, sorretto da chi intona accanto a lui il canto di preghiera e ringraziamento che abbatte giungla di promesse divine infrante o spesso mantenute a metà.

L’opera cinematica porta stampigliato il nome Ghosteen: archi brillanti e maggiori che si librano, e anche l’ugola pare fatta di cristallo e dal punto di vista dei genitori che vedono lo spirito brillante dei figli riempiendoli di gioia, un sentimento che s’infrange nell’arcigna durezza di Hollywood, la catarsi non arriva e lotta con l’attesa (“And I’m just waiting now, for my time to come”), gli strumenti si fanno incombenti e il sogno viene spezzato dall’adulta realtà (“It’s a long way to find peace of mind”), il basso cattivo infiltra la sua lama innescando i nervi che scattano e il cervello produce l’origine di tutti i mali (“Everybody’s losing someone”), e tutto cresce, il King Ink è di nuovo un crooner infernale, le frasi si uniscono e a ripetersi fanno scendere il sipario, con la sicurezza che qualcosa è rimasto in sospeso.

Come nei film dal finale aperto. I migliori.

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