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Un menu “Chocolate Starfish And The Hot Dog Flavored Water” grande e una confezione da cinque di Limp Bizkit

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Anno 2000. Estate, un divano, due teenager ed un televisore perennemente sintonizzato su MTV. Inevitabile incappare in Take A Look Around.

“E questi ora chi cazzo sono?”

“Beh, te li ricordi no i Korn, quelli che ti ho fatto sentire l’altro giorno? Ecco, questi diciamo che sono loro amici.”

“Sono molto più fighi!”

Ero giovane e, cosa peggiore di tutte, ero stupido. Ora che sono vecchio (ma non meno stupido) lo so che i Limp Bizkit non sono più fighi – anzi della magica triade completata da Korn e Deftones erano proprio i meno interessanti. Nemmeno nei sogni più bagnati di Fred Durst sarebbe potuto essere il contrario. Ma una vita fa forse necessitavo di questo: di violenza gratuita nella sua forma più semplificata possibile. A dicembre uscivo dal negozio di dischi con in mano due album: uno era “Kid A”, l’altro, beh, “Chocolate Starfish And The Hot Dog Flavored Water”, un titolo che pare più un menu da fast food del nu metal che altro, ma che altro significa. In quell’intervallo di tempo mi ero informato grazie ai giornali di settore e mi ero fatto un’idea chiara sul chi fossero questi cinque e avevo capito che non erano più fighi dei Korn. Però non importava più, perché ormai My Generation e Rollin’ mi avevano totalmente rapito, così come Wes Borland ed i suoi folli make up. Gli altri, Durst in primis, erano un cliché a braghe larghe e l’inconfondibile cappellino del frontman, lui, “Tongue Of Colicab” no. Era semplicemente altra roba, così come i suoi riff di chitarra. Pur di avere delle foto fighe da attaccare nel diario di questi tizi mi ero comprato pure un numero di “Cioè”, e chi ha la mia età (33) sa di cosa parlo. Quel giorno l’edicolante avrebbe preferito che fossi lì per un porno con le vecchie, saremmo stati meno imbarazzati entrambi. Ma così fu, e attaccai le foto del chitarrista sulla mia Comix. Che volete farci?

Per me quel disco è l’emblema della cafonaggine ed il fulgido esempio di come si possano sprecare musicisti e pezzi strumentalmente pazzeschi in favore di testi inopportuni, non tanto per la scomodità dei contenuti – che in fin dei conti erano robetta se paragonati ad altre cosucce in giro nello stesso periodo – quanto più per l’assurda quantità di facezie e autorefenzialità, scritte male e rappate peggio in essi contenuti. Ma, come diceva Rocco Tanica in un famoso video “ma non lo senti come suona male da Dio?”. E questo era Fred Durst: ci provava a fare il rapper bianco cazzutissimo, ma da una scala che va da Vanilla Ice ai Beastie Boys lui era ancora più in basso del livello minimo, un gradino sopra Mike Shinoda, ma pur sempre sotto Robert Winkle, anche se in realtà ci vorrebbe una scala di valori tutta targata nu metal, il cui punto più basso hiphoppisticamente parlando è Jacoby Shaddix.

Qualcosa c’era, però, qualcosa che era già venuto fuori sul seminale “Three Dollar Bill Y’All” e ancor di più su quel pezzo di urban street in salsa nu che era “Significant Other”. “Chocolate Starfish” era comunque superiore ad entrambi, e nonostante quanto detto finora. Era, ed è, perfetto. Perfetto nella sua bestiale “ignoranza”, nella sua approssimazione, nel suo essere Fred Durst e il suo piedistallo contro tutti quelli che non lo sopportavano. Ed erano tanti. Così tanti che lui, l’asshole cui fa riferimento il titolo, da solo non poteva fronteggiare, e così tira su un gruppo pazzesco di addetti ai lavori per il terzo album dei suoi Limp Bizkit, come a voler attestare la sua superiorità e dire “sarò pure uno stronzo, ma guardate qua quant’è lungo il mio hot dog!” E là guardavi, a Scott Weiland (di nuovo), DJ Premiere, Xzibit, DMX, Method Man e Redman (Wu-Tang e Def Squad a muso duro sul disco dei bianchi che scimmiottano, ok?), Terry Date, l’uomo che fece il suono dei Pantera e dei Deftones, Brendan O’Brien, Joe Barresi e Josh Abraham. Mica son finiti eh, però già qui si finisce esausti. Tutti questi personaggi (alcuni giunti in studio tanto per aggiustare una cosina o due) resero suono di “Chocolate Starfish” immortale. Standardizzato, piatto, pop ed iper-radiofonico/micidiale, espansivo, grande come una portaerei e – scusa Pierpa ma quando ci vuole ci vuole – un gigantesco carrarmato nu. Orribile, bellissimo.

Nei suoi vent’anni questo puzzle di mani e menti hanno fatto sì che il suo non invecchiasse mai e poi mai. Un collage in tutto e per tutto, Duchamp levati che arriva Durstchamp, e si piglia pure pezzi dei NIN – che è fan sfegatato però ha bacchettato gli Staind per quella copertina là con i chiodi nella Bibbia – e li pianta su quella gigantesca opener che è Hot Dog, che senza questa il jumpdafuckup non sarebbe niente, senza i suoi 46 fuck, inutili e sconvenienti, giusto per eccedere, poi la citazione colta nel ritornello per disgusto di Reznor, e via. Puoi sprecare un pezzo pazzesco come Livin’ It Up, con Sam Rivers (no, non il jazzista, visto? Citazione colta in mezzo a pezzo brutto, grazie Fred d’avermi insegnato) che tira le cinque corde tutto serissimo e morbido e sopra Wesley e le sue trame Lovecraft? Certo che puoi, e come? Con il testo, che domande: dedicato a Ben Stiller (lo vedete in una foto nel libretto col “redneck di Jacksonville”), “Mrs. Aguilera, come and get some” e quel “And continue to be flying like an eagle to my destiny” dove cazzo l’ha pescato, da un brano degli Extreme? E sotto tutto quell’ego incessante quelli a macinare distruzione e seminare panico, ma le due cose mischiate assieme, vero devasto. Poi c’è quella piccola cosina di DJ Lethal che si muove come un pachiderma nero vinile tra gli strumenti canonici.

Nessun’altra band scontata dello sconfinato mondo scontato che fu il nu-metal riuscirà mai a raggiungere le vette di pesantezza in posa plastica da bullizzato dello starset pronto ad una vendetta a manate (quantomeno a parole) del dissing spersonalizzato di Full Nelson e della pomposa Rollin’, quest’ultima vuota come un’anfora diventa di prepotenza l’anthem di tutte le feste a base metallica di quegli anni d’oro, di quelle estati americanpieane, e lo si dice bene in My Generation (e gli Who?), che pare la bandiera della nuova generazione X, bistrattata, incompresa, modaiola-ma-guai-a-dirlo e sboccata ma che è solo il paravento per dire a tutte le malelingue di smettere di parlare male di Lui, e quando la festa cala e si diventa sbronzi malinconici ma determinati ad autocommiserarsi di prepotenza pure My Way (e Sinatra?) e Boiler (uuuh, quegli arpeggi sulla coda). Ma poi il robusto incedere hip hop pimp my fuckin’ ride di Getcha Groove On, che due tamarri così su una basellona di questo calibro mai li sentirete di nuovo su queste frequenze (e altra figuraccia rappistica di Durst spacciato da uno Xzibit in forma smagliante), ma gira ad un voltaggio così alto che resti attaccato e ci lasci le penne. E su ogni singolo brano piove tutto l’egotismo durstiano, c’è lui e solo lui nei panni della star frustrata, scritto tutto peggio che mai, ma che bellezza. Che cafonate. Che batoste. Non crolla, potrebbe, anzi, dovrebbe ma non lo fa. Questa debolezza lirica è la sua forza erculea, lo rende invincibile, tanto che ti atterra, k.o. tecnico. Uscito lo stesso anno di “White Pony”, eh. Vi capacitate dell’imbarazzo? Che disco pazzesco. Questo eh. Ma anche quell’altro. Beh, motivi diversi: come dire che Eric Cantona, pazzesco per le doti calcistiche E per il calcio volante, sia figo come Chuck Norris, solo per il calcio volante.

Voi, che ancora oggi ve la menate e cocciuti come muli andate a vedere l’ombra di questa band dal vivo, siete gli stessi che si lamentano a piena voce dei (non)contenuti della trap. Ma li avete davvero letti i testi scritti dall’uomo sotto al cappellino da baseball rosso per questo album? No, vero? Vi siete persi tanto, sapete? Forse dovreste farlo. Date retta ad uno stupido.

Tra fero e piuma ‘sto disco ha deciso de esse fero, però che feta de chocolate starfish. Ma ora passatemi l’Alka Seltzer che ho da digerire vent’anni di tamarrismo.

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