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Matana Roberts – Coin Coin Chapter Four: Memphis

2019 - Constellation Records
jazz / expertimental / spoken word

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Tracklist

1. Jewels Of The Sky: Inscription
2. As Far As The Eye Can See
3. Trail Of The Smiling Sphinx
4. Piddling
5. Shoes Of Gold
6. Wild Fire Bare
7. Fit To Be Tied
8. Her Mighty Waters Run
9. All Things Beautiful
10. In The Fold
11. Raise Yourself Up
12. Backbone Once More
13. How Bright They Shine


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My name is Matana Roberts. I am an American saxophonist, composer, and multidisciplinary artist. I am most interested in sonic experimentation, thru the lens of endurance, perseverance, migration, liberation, oblation, improvisation, and the many layers of cognitive dissonance therein as it relates to history. My artistic scope is wider than maybe it should be at times, but I steer my work process via my own curiosity, self challenge, love of possibility, and am grateful to keep being given opportunities to explore. Art making, like living, is a rather precarious process. And I stand beloved and in awe of it all.

Il buon suono si vede dal mattino. Jewels Of The Sky: Inscription va annoverato nel solco di quei rari brani che impostano il tono fin da subito e che assicurano senza tema di sbagliare che l’ascolto varrà tutto il tempo speso.

Se ci si limitasse a questo, all’ascolto puro e semplice (e non è poco) di quest’album le suggestioni e gli stimoli sarebbero già sufficienti a riconoscere che siamo di fronte a qualcosa di speciale. Ma se si ha la pazienza di indagare (magari all’ascolto dello spoken-word in punta di scacciapensieri di As Far As The Eye Can See) si arriva a scoprire un mondo dietro questo nuovo capitolo nell’opera di Matana Roberts. “COIN COIN” è una serie di investigazioni sonore e documentarie sulle testimonianze rimaste della tratta degli schiavi successiva alla scoperta del continente americano, e al contempo un’indagine sulle tradizioni spirituali e musicali folk dell’America degli antenati, e di come queste istanze siano arrivate fino a noi. In un certo senso, è una tesi di dottorato in continuo divenire, che si arricchisce di nuovi spunti e riflessioni a ogni capitolo. Oltre che tirare in ballo una gamma imponente di riferimenti musicali legati alla tradizione jazz ma non solo.

Prendiamo Trail Of The Smiling Sphinx: un turbolento affaccendarsi di violini da musica tradizionale irlandese, scosso da droni di bassi tellurici insistenti come uno sciame di mosche. E qui, come altrove, a legare i capitoli fra di loro interviene la voce recitante della Roberts, che traccia una storia personale e idealmente universale di vicende umane e ricordi famigliari: “I am a child of the wind, even daddy said so / We used to race and I would always win / And he’d say “Run baby run, run like the wind, that’s it, the wind” / Memory is the most unusual thing”.

Una memoria che è attendibile al netto delle dissonanze e le interferenze proprie del flusso di coscienza, che si esplicita nel concerto di frammenti sonici in rotta di collisione reciproca di Piddling, inevitabile girovagare della mente che incespica, ma che riesce comunque a trovare la strada per le proprie parole e parlare, pur in un linguaggio da interpretare, da sentire prima ancora che comprendere, come negli scenari acquosi e sibillini di Shoes of Gold. Uno spirito che, per capire e fondersi col significato deve farsi acqua e penetrare ovunque, adattarsi a tutte le fessure e gli anfratti: “life goes on like the mighty waters on its way to the Gulf / Sometimes calm,?sometimes?dashing, waves high,?peaceful still”.

Se le istanze più iconoclaste e inclassificabili la fanno da padrone in questo album, a dar loro ancor più peso e prestigio sono gli episodi che se ne allontanano di più, ai quali spetta l’onere di caricare sulle proprie spalle la maggiore carica emotiva e spirituale del disco. Esemplare in questo senso è Her Mighty Waters Run, gospel struggente e ancestrale, quasi una rilettura in tono ieratico e minore di Swing Low Sweet Chariot, col verso “We’ll roll the old chariot along” salmodiato come un mantra in una performance vocale corale di spessore.

Altrettanto significativi e parte complementare dell’opera sono gli spoken word della Roberts, un diario di generazioni che si susseguono, con i loro aneddoti che si confondono e si intrecciano fino a costruire un memoriale in cui a contare non sono tanto le coordinate spazio-temporali dei singoli eventi, ma piuttosto la trasmissione intatta di un corpus di racconti che concorrono a tramandare una storia comune e collettiva, che diventa patrimonio di tutti. In The Fold è paradigmatica: da potersi leggere anche senza l’ausilio della musica.

L’artista non poteva che porre al nadir dell’opera il pezzo di maggiore impatto. How Bright They Shine è un muro sonoro, un crescendo di voci diseguali ma allo stesso livello, un coro di anime vaganti in cerca di riconoscimento. Non a caso, a legare fra loro l’urgenza di ciascuna voce è un om breve ma significativo, a incipit e finale del brano e quindi dell’album.

A farsi portavoce di questo miracoloso equilibrio di voci diverse e in armonica dissonanza è un ridotto ma compatto ensemble: Hannah Marcus a chitarre, violino e fisarmonica; Sam Shalabi a chitarra elettrica e oud; Nicolas Caloia al contrabbasso; Ryan Sawyer a batteria, vibrafono, scacciapensieri e campane. Il risultato di questa babele di voci è un passo oltre verso la definizione di un genere per sua stessa natura indefinibile, come il free jazz: c’è tanto Ornette Coleman qui, altrettanto Albert Ayler, l’imprescindibile Coltrane, la Mahavishnu Orchestra e tanta altre carne al fuoco. Ma soprattutto c’è Matana Roberts, capace, con questo quarto capitolo, di dare ancora più sostanza e autorevolezza alla propria narrazione e di scrivere senza dubbio il capitolo più riuscito di questa tetralogia, presumibilmente foriera di ulteriori episodi a dar forma al jazz a venire, per citare uno dei padri spirituali di questo manifesto della musica moderna.

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