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Interviste

Intervista ai JENNIFER GENTLE

Jennifer Gentle

Tornati dopo 9 anni di silenzio con il nuovo album omonimo firmato La Tempesta Dischi (qui la nostra recensione), i Jennifer Gentle si sono confermati una delle realtà più vive e interessanti del nostro panorama e non solo. Abbiamo colto l’occasione per incontrare Marco Fasolo, mente del progetto padovano, per approfondire qualche interessante questione.

Spesso dietro il nome di una band ci sono significati reconditi o più semplicemente riferimenti non casuali o addirittura omaggi ai più grandi. Il nome Jennifer Gentle è forse legato al magico e misterioso Syd Barrett, l’architetto talentuoso dei Pink Floyd?

Quando ho fondato la band insieme al batterista Alessio Gastaldello stavamo cercando un nome e c’erano parecchie ipotesi ma nessuna ci convinceva davvero; poi un bel giorno stavo leggendo una delle ultime interviste fatta a Syd Barrett da un giornalista italiano che si recò proprio a casa sua; alla fine dell’articolo spuntavano i testi dei primi due dischi dei Pink Floyd e lessi nel testo di Lucifer Sam il nome Jennifer Gentle e mi sembrò perfetto. Era interessante sia il fatto che era un nome di una donna sia perchè lì lei è una strega quindi un po’ rimanda ad un’immaginario cultista che mi sembrava calzante. La musica dei Pink Floyd soprattutto di Syd Barrett ma anche di altre band mi ha influenzato e mi ha dato quella voglia di partire.

Come una vera e propria opera d’arte, in un disco c’è sempre colui che muove tutti i fili. Dopo tutte le lunghe ore di registrazioni, l’attenzione precisa per gli arrangiamenti e per il dettaglio sonoro puoi dirmi quanto sei soddisfatto di questa nuova esperienza artistica in cui hai potuto mettere dentro il Marco Fasolo interprete, musicista, scrittore, arrangiatore e produttore?

Sono molto soddisfatto del disco anche perchè tutti i pezzi non sono invecchiati dentro di me in tutto questo tempo. La lavorazione è stata di circa tre anni ai quali va aggiunta la fase di scrittura ecc… quindi tra tutto sono stati impiegati dieci anni di lavoro. Pensa che il brano Swine Herd ha più di vent’anni e l’ho voluto rielaborare per questo disco.

L’universo dei Jennifer Gentle è un microcosmo concepito con scrupolosa attenzione ai particolari e, proprio per questo ti domando, a lavoro finito, se c’è un pezzo che ti ha procurato affanno nel realizzarlo e, invece un altro che ti è venuto quasi di getto?

Per quanto riguarda la fase di scrittura in realtà no perché quando mi capita di lavorare ad un pezzo che non si sviluppa in tempi ragionevoli o lo accantono o lo abbondano perché non ci voglio perdere tempo. Mentre per la fase di registrazione, una volta entrato in studio era tutto buono, stabilito. Poi è ovvio che ci sono stati dei pezzi su cui ho dovuto lavorare di più rispetto ad altri ma non ho avuto soprese.

Il nuovo album consta di diciasette brani per un’ora di musica. Ho notato tantissima varietà stilistica e compositiva ma, allo stesso tempo, un’omogeneità di fondo. “Jennifer Gentle” è un disco visionario, elegante che sperimenta più di un genere musicale. Eppure un dubbio mi sorge spontaneo quanto l’ascoltatore medio di oggi, a volte distratto e pigro, apprezzerà questo tipo di ascolto?

Non lo posso sapere. Nel 2019 il pubblico è come una moglie al quarantesimo anno di matrimonio che ha voglia di ascoltare ma la devi stuzzicare sennò finisce che si addormenta davanti alla tv la sera. Penso che da una parte c’è un pubblico un po’ annoiato che non è più abituato alle sorprese, dall’altra ci sono i creativi che non sanno stuzzicare. Per me hanno colpa entrambi, chi non crea materiale abbastanza curioso e chi nell’ascoltare non presta troppa attenzione.

Jennifer Gentle

Oggi verso tutti c’è un bombardamento mediatico eccessivo anche per quanto riguarda l’offerta musicale. Che ne pensi?

Il fatto che esca tanta roba continuamente non crea un bombardamento mediatico. Dal punto di vista musicale io non mi sento solo e so di non esserlo; quando ti arriva addosso una pioggia di nulla non ti senti bombardato ma piuttosto svuotato. Il fatto che la gente non si accorga di certe cose non è perché c’è troppa proposta musicale ma perché manca la qualità, qualcosa che incuriosisca. Il bombardamento di dischi che escono ogni giorno è il male minore. Ti faccio un esempio: film belli che vale la pena andare a vedere al cinema non ce ne sono molti però quando uno risulta davvero meritevole di essere visto la gente se ne accorge, anche con il passaparola, quindi in generale se c’è un bel film o un disco valido poi i risultati arrivano.

Psichedelia è un’etichetta che spesso è stata associata ai vostri album, anche quelli passati. Tuttavia questa espressione in musica contiene sfumature diversissime. Non è un vero e proprio genere musicale piuttosto un’attitudine ad esplorare, sperimentare, una curiosità di andare oltre. Un artista nelle sue composizioni vuole svelare qualcosa di sé. Ti ci ritrovi in questa volontà espressiva?

Esatto sono d’accordo con te. Se intendiamo solo la psichedelia come genere o sotto genere diventa una rovina. Cosa vuol dire psichidelia? West coast, LSD, capelli lunghi…non ci siamo, non è più musica a quel punto diventa una icona e basta. Per me la psichedelia è una forma mentale che porta a lavorare, scrivere, creare con una sensiblità che punta a creare qualcosa che sta aldilà di una porta chiusa e, nel momento in cui la apri, scopri quell’angolo di cervello che prima era addormetato. Così arrivi a spalancare il vaso di pandora da cui esce tutto un immaginario, un sapore, un’estetica che prima non c’era oppure magari c’era ma la fai tua la rendi fresca di nuovo.

Nel video del singolo Guilty compare tuo figlio Julian Fasolo mentre suona l’assolo di chitarra. Egli  è presente anche nel pezzo Swine Herd. È stata stimolante per entrambi questa collaborazione?

Quando abbiamo finito il video di Guilty Julian non c’era ancora io però avevo il sogno di includerlo perché c’è un elemento infantile importante in quella canzone e volevo che questa aspetto arrivasse. Alla fine mi sono reso conto che mi mancava qualcosa nel momento dell’assolo, ho notato che non c’era abbastanza brio, gioco, divertimento così ho fatto un playback di lui – molti pensano che è mio figlio che suona in realtà non è così – ed è incredibile quanto alla fine Julian in quella situazione sia stato credibile; nel video infatti la sua presenza ha dato un taglio brioso, quello che cercavo. Mentre, nelle voci urlanti, un po’ riverberate, sul finale di Swine Herd ho altresì voluto includerlo per rincongiungere un po’ il mio io bambino al suo. In ogni caso mi è sembrato giusto coinvolgerlo e averlo all’interno di questo viaggio nel mio cervello che rappresenta questo disco.

Una curiosità sull’art-work – un poster inedito realizzato insieme a Diego Dal Bon, impegnato nella  batteria e percussioni – che sembra suggerire più di una interpretazione. Fuoriesce una visione spettrale. Cosa si cela dietro questo manifesto visionario?

Il disco era abbastanza denso e corposo da non richiedere a mio avviso una copertina con un’estetica grafica particolarmente barocca. Quindi ho pensato insieme a Diego ad una immagine pulita, lineare e poi abbiamo anche ragionato sul mantenere un filo rosso con i precedenti lavori. Dopo di che mi è venuto in mente che a casa dei miei c’è sempre stata quella maschera così poi un giorno l’abbiamo fotografa, montata, trovato un font ecc…ed ha funzionato. Sussiste una componente femminile, un viso di una donna con le labbra rosse, c’è ambiguità, un po’ di Carnevale e di Teatro Kabuki… è una copertina misteriosa, notturna che racchiude lo spirito dell’album.

I Jennifer Gentle vantano il merito di essere stati i primi a firmare con la celebre Sub Pop Records di Seattle. Negli anni passati i tour sono stati copiosi sia in Italia ma anche molte esibizioni all’estero. Come ti sei trovato?

Intanto ti anticipo che l’anno prossimo faremo un tour in Europa. All’estero cantando nella lingua inglese, anche se nei testi non c’è un peso letterario così grosso, tu crei più empatia verso il pubblico. Tuttavia per me l’aspetto più interessante è che mediamente la musica all’estero è più fruita, più vissuta fa più parte del quotidiano è insita nella loro cultura. In generale se tu parli con un inglese o un americano di musica egli è competente mentre in Italia ci interessa mediamente meno come argomento anche perché nelle nostre città ci sono meno locali, meno band…

Non pensi che il fatto di cantare in lingua inglese in Italia possa rappresentare un limite?

Io ho sempre e solo ascoltato musica inglese poi certo mi piace Battisti, Carosone… però non mi è mai venuto da scrivere in italiano; in un certo senso ormai il mio cervello è codificato in questo modo e riconosce la melodia se è in inglese. Non voglio fare qualcosa per compiacere l’altro piuttosto mi piacerebbe risucire a realizzare ciò che piace a me e, attraverso la modalità di scrittura, farla arrivare al pubblico. Mi piacerebbe scrivere in italiano è una sfida e sarebbe una scelta molto importante, coraggiosa, e artistica ma al momento a me non viene. Lo so che in Italia probabilmente è un limite ma per ora questo non è un motivo per me valido per cambiare idea sulla modalità di scrittura. Infine rubo una battuta di Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion, I Hate My Village) quando disse: “Noi scriviamo per il mondo non per l’Italia”. Per me è così perché concettualmente quando io scrivo un disco è rivolto al mondo che lo ascolterà e non per forza solo all’Italia.

Ad oggi ci sei solo tu come unico rappresentante della band originaria. Eppure i Jennifer Gentle hanno rappresentano un progetto duraturo, basato su idee solide. Ma ti chiedo perché hai lasciato scorrere nove anni dall’ultimo lavoro?

Ho scelto di fare altro in questi anni, approfondire altri aspetti del mio lavoro che non è solo quello di scrivere musica ma stare in studio, produrre e quindi applicare questa mia capacità ad altri progetti. Dal punto di vista artistico ho lavorato, sperimentato, mi sono evoluto, migliorato, ho cambiato i macchinari al fine di ottenere il suono che avevo in mente per questo disco. Se non avessi usato questo tempo in questa maniera probabilmente sarei arrivato meno pronto oggi. La voglia era quella di stare in studio perché stavo bene in quella dimensione e ad oggi non me ne pento anche se so che stare sul palco ha i suoi vantaggi e aspetti positivi.

A tale proposito cosa preferisci: il lavoro in studio o esibirti dal vivo?

Sono assolutamente equivalenti per me. Sono due tipi di energia diversissima ma mi piacciono entrambi, sennò non sarei rimasto chiuso in svariati studi per dieci anni però adesso ho voglia di stare in tour per altrettanto tempo.

 

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