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Back In Time

“The Mind Is A Terrible Thing To Taste”, la colonna sonora di un incubo ad occhi aperti

Se il 1989 fu un anno fondamentale per l’evoluzione della musica industrial, una buona parte del merito non può che andare ad Al Jourgensen e Paul Barker. Sembra facile dirlo oggi ma, all’epoca, non vi erano neppure i presupposti per pensarla una cosa del genere. I due membri storici dei Ministry, infatti, lavorarono alle nove tracce di “The Mind Is A Terrible Thing To Taste” in condizioni a dir poco pietose. Droghe, alcol e violenza divennero la norma nel periodo trascorso dalla band nei Chicago Trax Studios.

L’atmosfera pesantissima e oscura che aleggiava in quelle sale di registrazione riuscì, in qualche maniera, a intrufolarsi tra le note delle canzoni scritte per il seguito di “The Land of Rape and Honey”. I gusti metallari di un ex paladino del synthpop come Jourgensen presero definitivamente il sopravvento in un album che, a tre decenni esatti dalla sua uscita, può essere considerato una sorta di primo, vero e proprio esempio del classico sound alla Ministry.

Nonostante il ruolo ancora centrale ricoperto dalla componente elettronica (drum machine in primis), a occupare realmente la scena è la chitarra. Uno strumento che nei tre dischi precedenti era quasi sempre rimasto un po’ defilato, se non addirittura completamente assente. Qui, invece, svolge un ruolo fondamentale: a lei va il difficile compito di fare da ponte tra due mondi apparentemente inconciliabili, ovvero quelli del thrash metal e di un industrial inteso nella forma più pura e primordiale del termine.

Riff di scuola Slayer vengono destrutturati e ricomposti fino a diventare brutalmente alieni. La matrice rock resta pressoché inalterata, ma si trasforma in qualcosa di diverso; una creatura digitale, disumana, sporca e decisamente molto grezza, fino a sfondare le barriere della distorsione. Da questo punto di vista, la mitragliata in palm mute che fa da apertura alla fulminante Thieves vale più di mille parole. Per non parlare dell’ultimo minuto e mezzo del brano, che è essenzialmente un brevissimo riassunto di “Reign in Blood” raccontato da un gruppo di androidi. E da un trapano, vero protagonista della traccia.

Con Burning Inside la velocità cala drasticamente ma non si abbassano i livelli di adrenalina, mantenuti altissimi dal cantato punk di Jourgensen e da un rullante che procede imitando la marcia di un treno in corsa. Se Never Believe è essenzialmente un micidiale assalto industrial sorretto da un ritmo martellante, Cannibal Song è quanto di più quieto abbiano da offrirci i Ministry di “The Mind Is A Terrible Thing To Taste”. Ma è una quiete solo apparente, carica com’è di un senso di minaccia ai limiti del sopportabile: il basso di Paul Barker e il sassofono di Mars Williams le conferiscono una sfumatura dub, mentre la voce sgraziatissima di Chris Connelly vi aggiunge una buona dose di paranoia.

Paranoia che avvolge pure il minimalismo primitivo, tribale e post-punk di Breathe, in cui è difficile non notare l’influenza dei maestri Killing Joke. La lunghissima So What è, a mio modesto parere, uno dei migliori pezzi in assoluto firmati dalla ditta Jourgensen & Barker: strofe e ritornelli si alternano in un gioco di equilibri tra tensione e violenza, tra l’ansia strisciante delle prime battute e le esplosioni di rabbia di un testo degno di un guerrafondaio (Now I know what is right/I’ll kill them all if I like/I’m a timebomb inside/No one listens to reason/It’s too late and I’m ready to fight).

Le rime gentilmente offerte dal rapper Grand Wizard K-Lite in Test hanno il merito di anticipare di un buon lustro il discorso nu metal, ma non riescono a salvare quello che è l’unico episodio debole della scaletta – non a livello sonico, tuttavia: il brano è incredibilmente abrasivo. In Faith Collapsing le chitarre spariscono per lasciare campo aperto alle quattro corde di Barker e a una drum machine talmente rozza da abbandonare ogni velleità tecnologica e abbracciare la preistoria.

I cori da stadio e le risate malate guidano l’ascoltatore verso l’ultimo, spaventoso supplizio. Nonostante il titolo, Dream Song non ha alcuna caratteristica in grado di avvicinarla a un sogno: vocalizzi arabeggianti, mugugni indefinibili, frasi registrate nel corso di telefonate, fracassi di ferraglie e una linea di synth che sembra sbucare fuori da una colonna sonora horror fanno da sottofondo a quello che potrebbe benissimo essere un incubo a occhi aperti. Una lenta discesa negli inferi, in abissi popolati da ladri, bugiardi, assassini, ipocriti e bastardi.

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