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Back In Time

“White Album”, un capolavoro a due passi dalla fine

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Siamo nel 1968 ed è passato pochissimo tempo da quando “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” è uscito, affermandosi come il capolavoro creativo e musicale di sempre, mostrando al mondo le capacità artistiche del quartetto di Liverpool e dei loro collaboratori. Non solo, dalla sua uscita si sono moltiplicate le “band copie” dei Beatles ora impegnate ad approfondire e sviluppare quello che poi verrà nominato Rock Psichedelico facendosi sottogenere a se stesso.

Ma le cose non sono cambiate solo all’esterno del gruppo, ma anche all’interno. L’eccessivo uso di LSD, il fare da capetto di Paul e la presenza percepita come opprimente ed invadente dagli altri tre, di Yoko Ono, iniziano a minare le relazioni tra i membri del gruppo. E’ cosi che l’amalgama musicale e gli equilibri interni, mantenuti grazie anche alle capacità ed al talento del “quinto Beatles”, George Martin, si sfalda man mano separando il gruppo in quattro individualità più distinte e meno unite.

Con queste premesse, la band inizia le registrazioni dell’album successivo: un doppio vinile che prenderà il nome di “White Album”, caratterizzato appunto dalla copertina completamente bianca, con il solo nome della band scritto sopra in piccoli caratteri. L’album si distingue subito per una relativa minore complessità musicale che aveva contraddistinto i lavori precedenti, per molti dovuta a causa appunto dei dissidi interni, che spesso finivano in discussioni rovinano l’atmosfera delle sessioni di incisione. Lo stesso John Lennon commentò successivamente l’atmosfera pesante e l’armonia perduta di quel periodo, ma questo non deve far credere che il White Album sia qualcosa di “inferiore” al resto dei lavori. È invece un album diverso, in cui quattro artisti dalle quattro personalità più sviluppate e ben distinte si confrontano, creando un insieme di canzoni di cui alcuni sono dei capolavori “alla Beatles”, mentre altre sono delle buone canzoni per il periodo musicale in questione.

Non basterebbero dieci pagine per parlare di tutte le canzoni nel disco, e ho quindi scelto alcune curiosità su quelle che ho reputato di maggior interesse. Prima su tutte, il primo capolavoro di George Harrison, che già aveva dato un assaggio delle sue doti introspettive in Sgt Pepper con Within you Without you, e che ora si afferma appunto con While my guitar gently weeps. L’arpeggio del chitarrista di Liverpool è struggente e virtuoso, potenziato dall’arrangiamento ideato da George Martin e realizzato dagli altri tre Beatles che mettono in crisi l’impianto accusatorio di chi li considera a questo punto “sfaldati”. Il testo parla dei rovesci della vita e delle sue sofferenze, e nemmeno troppo velatamente del “mondo Beatles” che George vedeva crollare ineluttabilmente.

Revolution 1 era un pezzo già uscito come lato B nel singolo 45 giri di Hey Jude già tre mesi prima, in una versione esplosiva e graffiante, aperta da una chitarra elettrica prepotente ed accompagnata dall’urlo di John. Nel “White Album” compare invece in una versione più blues ed acustica, con un piccolo particolare: mentre nella versione precedente John canta “Count me out”, riferito alla necessità di una rivoluzione violenta, in questa sfoggia un: ”Count me out, in”, in cui molti ci videro un cambiamento di posizione politica dello stesso, che in effetti lui stesso confermerà successivamente in una intervista. Peculiare è anche Revolution 9, che vorrebbe essere una sperimentazione quasi avanguardista della stessa canzone, e che venne identificata invece dalle teorie cospirative sulla presunta morte di Paul McCartney, anni prima in un incidente stradale e la sostituzione con un suo sosia, come una riproduzione dei suoni dell’incidente mortale, e messaggi subliminali possibili da ascoltare se ascoltata all’incontrario.

Dulcis in fundo, è la stessa prima traccia dell’album, Back in the USSR, che oltre al titolo che per quegli anni era piuttosto provocatorio, presenta la particolarità che ad una batteria incredibilmente dinamica e suonata in modo diverso dagli altri pezzi, ed in generale nei pezzi dei Beatles, non ci fosse il buon Ringo, ma Paul. Successe infatti che durante una delle sessioni di registrazione di quella stessa canzone, Paul si lasciò andare in uno dei suoi atteggiamenti da leader del gruppo iniziando a criticare pesantemente Ringo sul suo modo di suonare la batteria in quel pezzo. Ringo, scocciato, prese e se ne andò infastidito, assentandosi dalle prove per dieci giorni. La band tuttavia non si fermò e l’inclusione di Back in the USSR registrata senza il batterista resta come l’ennesima prova di quanto fossero tesi gli animi. Successivamente lo stesso Paul commentò il pezzo come una parodia dei Beach Boys e di tutto il filone musicale a cui avevano dato lustro.

Come è possibile intuire quindi, il “White Album” è tutto meno che la testimonianza di una band in decadenza e disgregazione, ma rivolta semmai verso un cambiamento ed una evoluzione che poi li porterà alla rottura definitiva, non prima di regalare al mondo un altro capolavoro della portata di “Abbey Road”.

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