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DJ Shadow – Our Pathetic Age

2019 - Mass Appeal / Liquid Amber
hip hop / elettronica / crossover

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Tracklist

Instrumental Suite

1. Nature Always Wins
2. Slingblade
3. Intersectionality
4. Beauty, Power, Motion, Life, Work, Chaos, Law
5. Juggernaut
6. Firestorm
7. Weightless
8. Rosie
9. If I Died Today
10. My Lonely Room
11. We Are Always Alone

Vocal Suite

1. Drone Warfare (feat. Nas, Pharaohe Monch)
2. Rain On Snow (feat. Inspectah Deck, Ghostface Killah, Raekwon)
3. Rocket Fuel (feat. De La Soul)
4. C.O.N.F.O.R.M. (feat. Gift of Gab, Lateef The Truth Speaker, Infamous Taz)
5. Small Colleges (Stay With Me) (feat. Wiki, Paul Banks)
6. JoJo’s Words (feat. Stro)
7. Kings & Queens (feat. Run the Jewels)
8. Taxin’ (feat. Dave East)
9. Dark Side of the Heart (feat. Fantastic Negrito, Jumbo is Dr.ama)
10. I Am Not A Robot (Interlude)
11. Urgent, Important, Please Read (feat. Rockwell Knuckles, Tef Poe, Daemon)
12. Our Pathetic Age (feat. Samuel T. Herring)


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“A dispetto del titolo, quest’opera nasce ed è ispirata dall’amore per gli esseri umani che mi circondano, e per questa fragile astronave abitata da noi tutti. Anche se siamo stati sistematicamente divisi da confini arbitrari, sia geografici che mentali, analogici e digitali, nella nostra essenza più profonda finiamo per assomigliarci più di quanto tendiamo ad essere diversi. Ognuno si relaziona a suo modo, reagisce, accoglie o respinge gli stimoli esterni che ci complicano la vita. In quanto artista, questa è la mia strategia di coping* e mi auguro possa diventare anche la vostra”.

*(In psicologia, l’insieme di meccanismi elaborati dal cervello per gestire lo stress, N.d.R.)

Comunicato piuttosto ambizioso quello riportato da Shadow sui propri social lo scorso 15 Novembre. Del resto anche il lavoro di cui annunciava la pubblicazione lo è: circa novanta minuti di musica ripartiti in due dischi, uno completamente strumentale e l’altro che vede sfilare sulle produzioni del guru di San Francisco, artisti equamente suddivisi tra nomi affermati da decenni, emergenti che stanno raccogliendo i primi consensi e sconosciuti al battesimo del fuoco. Sarebbe stata una scommessa coraggiosa anche in tempi segnati da un flusso d’informazioni meno imponente e inarrestabile, con un minor numero di uscite da prendere in considerazione e un pubblico disposto a concedergli (e concedersi) più di trenta secondi prima di valutarle.

Non credo esistano gli estremi per parlare di un vero e proprio trend, è però un fatto che il 2019 sia stato segnato da grandi ritorni accompagnati da album lunghi e complessi, basti pensare a Tool, Nick Cave e Swans. “Our Pathetic Age” va ad arricchire questa già pregevole lista di titoli in grado di abbinare quantità e qualità, riuscendo a brillare di luce propria in un’annata tutto sommato soddisfacente sul versante hip hop (ovviamente ovunque tranne che in Italia, ma lo sapevate già vero?).

Non fatevi ingannare dalla sigla che ne precede il monicker, Josh Davis è uno dei pochi personaggi all’interno del proprio ambiente a potersi fregiare del titolo di musicista, senza che nessuno possa trovare elementi sufficienti a smentirlo. Distorsioni nemmeno troppo vagamente reznoriane, del resto care anche all’amico e collaboratore El-P, offrono lo slancio necessario alla “Instrumental Suite” contenuta sul primo disco per andare subito al sodo. Introdotta da semplici pattern di batteria elettronica, con ogni probabilità suonata senza quantizzarla, Slingblade trova il proprio fulcro in una dose massiccia di synth maestosi, sovrastati da un glockenspiel squillante che fa tanto trap (prendete appunti giovani producer in erba), mentre giradischi manovrati con precisione chirurgica vanno ad occupare ogni interstizio rimasto libero.

In soli due minuti Beauty, Power, Motion…, riesce a fornire a quanti sostengono il jazz non smetterà mai di essere rilevante, argomenti più che interessanti per sostenere la propria tesi. L’uno-due da K.O. tecnico è qui però costituito da Intersectionality e Juggernaut. La prima è una cavalcata progressiva in cui i suoni dilatati della dub, entrano in rotta di collisione con un bassone sintetico il cui solo scopo pare quello di frantumare vetri, mentre si viene aggrediti da un esercito di tastiere acide e una chitarra a un tempo brillante e abrasiva. La seconda ha tutta l’aria di essere un tentativo di abbattere una montagna a colpi di beat juggling, industrial ferale che si risolve in una coda jungle/d’n’b. La ormai arcinota classe del padrone di casa nell’accostare i sample, si palesa nel pianoforte e nell’arrangiamento di Firestorm, tanto che pare quasi di vedere il volto sorridente di Duke Ellington che approva.

Il trittico finale di questa prima parte ci restituisce il DJ Shadow più introspettivo ed etereo, quasi un attentato alla sfera emotiva dell’ascoltatore, del resto titoli quali My Lonely Room e We Are Always Alone si spiegano abbondantemente da sé. Si passa quindi alla “Vocal Suite” con un certo timore di rompere l’incanto fin qui creatosi, ma come diavolo si fa a non esaltarsi davanti alla verve del tandem costituito da Nas e Pharoahe Monch, pronti a fare scempio di qualunque rapper meno che geniale, con la sfortuna di esserglisi parato davanti proprio in quel momento?! Gli schiaffoni o meglio, le tecniche di kung fu, proseguono inarrestabili con Rain On Snow, la quale può vantare la presenza nientemeno che di un terzo di Wu-Tang Clan, circondato dalla consueta aura d’intoccabilità. Lo show non può che decollare quando sugli ottoni di Rocket Fuel ritroviamo i sempre adorabili De La Soul.

Si sa che il rap può essere altro da un mero strumento per intrattenere. Potevano mancare su un disco del genere contenuti e riflessioni un po’ più sostanziose? No, infatti ecco il giovanissimo Stro (classe 1996) a raccontarci di come anni fa abbia pensato di sfuggire a una situazione di povertà estrema tentando il suicidio. Un testo piuttosto semplice dal punto di vista della costruzione tecnica ma in cui ogni parola pesa come un macigno, su una base che è praticamente un tributo alla dark wave. Un bel raduno di vecchi leoni della Bay Area, tra cui Gift Of Gab dei Blackalicious, è quello intento a sottolineare la propria distanza dalla massa su C.O.N.F.O.R.M.. Non potevano mancare all’appello i Run The Jewels, con un pezzo insolitamente morbido per i loro standard ma tentare di bissare l’irripetibile colpaccio di Nobody Speak, sarebbe stata effettivamente una scelta poco oculata. Small Colleges, con tale Wiki a fornire le rime e Paul Banks degli Interpol al ritornello, è semplicemente il miglior pezzo trap che abbia mai sentito, la titletrack una ventata di freschezza e positività che mi auguro finisca in alta rotazione su tutte le stazioni radiofoniche del pianeta. La versione su cd ha inoltre come graditissima bonus track Systematic, con Nas cecchino di sillabe su un groove incredibilmente funky, pezzo passato piuttosto in sordina alla sua uscita e che si spera possa finalmente godere dell’esposizione che merita.

Raramente è capitato di assistere a un matrimonio così felice tra l’amore per i classici e la ricerca di nuove strade da battere. “Our Pathetic Age” è un lavoro che chiede tanto all’ascoltatore, lo sfida, lo obbliga a uscire dalla propria zona di comfort e a confrontarsi con schemi differenti da quelli che ha già interiorizzato. Una volta entrati nella sua logica però, ci si sorprende a vedersi restituire addirittura più di quanto gli si sia dato. Una fuga a perdifiato dall’alienazione, talvolta ricercata volontariamente per non ritrovarsi diluiti in un codice binario, in un mondo che sembra diventare ogni giorno più frenetico, competitivo e spietato. Del resto è ormai risaputo come al termine di un’attività fisica sufficientemente intensa, il cervello rilasci un’enorme quantità di endorfine. 

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