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Troppi re all’inferno, troppi servi in paradiso. La lunga Attesa di Kaos One.

Kaos

Marco Fiorito, meglio noto come Kaos One, è uno dei pochi nomi attivi nel panorama hip hop nostrano letteralmente dal giorno zero. Era presente quando questa cultura emetteva i primi vagiti su suolo italico e ha contribuito significativamente a renderla qualcosa di più concreto, perseverando nel dare forma alla propria visione anche in momenti in cui il riscontro di pubblico era pressoché nullo.

Faccio molta fatica a immaginare il resto del mio apprendistato perenne in tale ambiente se a un certo punto non mi fossi imbattuto nella sua voce, una delle poche realmente inconfondibili uscite dai meandri del rap nostrano. Tale felice incontro, come buona parte di quelli che mi cambiarono le orecchie da adolescente, avvenne a casa di un amico più grande, bravissimo dj e beatmaker, presso cui stazionavo costantemente avido di informazioni.

Erano passati solo 4 anni da quei ’90 a cui nell’ingenuità dei miei quattordici anni, guardavo come un’era mitologica. Pensare che se fossi nato una decina d’anni prima, avrei potuto essere testimone diretto dell’entusiasmo che animava i racconti che me ne venivano fatti, mi causava non poca frustrazione. Attorno a me di tutto quel fermento creativo, era rimasta ben poca cosa: giusto qualche muro su cui campeggiavano le lettere di alcuni writer locali (uno su tutti: Sir Two), troppo elaborate perché la mia manina tremolante potesse cercare di emularli. Serate, forse due l’anno: in provincia funziona così ancora oggi che tutto sommato interesse attorno alla cosa ce n’è, figuriamoci allora. Fortunatamente per ascoltare un disco non è mai troppo tardi: ed è qui che entra in gioco “-/-/-/-/-“ (L’attesa), seconda fatica solista dell’artista in questione.

Kaos

Hardcore è un termine che qualunque sia il campo a cui si associa, significa grosso modo: spinto all’estremo. Mi era praticamente impossibile immaginare qualcosa di più estremo di quel disco, almeno in ambito rap. Aldilà dell’interpretazione caratterizzata da un timbro abrasivo ai limiti dell’indemoniato, quel suono sporco in perfetta antitesi con quello patinato dell’alta rotazione di MTV, quei versi scritti con un’attenzione maniacale per i dettagli, quella fittissima rete di immagini evocate dalle parole, erano per me qualcosa di sconvolgente. Nessuna concessione alla melodia, nessuna possibilità di cogliere i riferimenti senza avere studiato a fondo la materia. Quando poi il tono si faceva più introspettivo (oltre al remix della celeberrima Cose Preziose, il disco ospita due perle come la titletrack e La via del vuoto), se si era dotati di sufficiente empatia non si poteva che venire colti dai brividi.

Avete presente i racconti di donne morse da una tarantola provenienti dal profondo Sud del Paese, alle quali non restava che ballare come forsennate fino a crollare prive di sensi, per scongiurare la propria crisi esistenziale? Ecco, il modo in cui Kaos aggrediva (e aggredisce tutt’ora) ogni beat, suscitava in me la stessa impressione: più che non voler fare un rap diverso, non poteva. Quest’anno il disco di cui abbiamo parlato finora, spegne la bellezza di venti candeline. Non mi dilungo oltre con le mie considerazioni, avendo avuto la fortuna di poter interpellare direttamente l’autore a riguardo.

Vuole parlarci del processo creativo che ha segnato il passaggio da “Fastidio” a “L’Attesa”? Quali ascolti, letture, visioni l’hanno influenzata maggiormente? Ritiene che nei tre anni intercorsi tra un lavoro e l’altro il suo approccio alla scrittura sia in qualche modo cambiato?

Sono ricordi talvolta non facili da rievocare. Sia in termini emotivi sia per la precisione nell’attendibilità. Ma ricordo che al tempo divoravo “Il libro dei cinque anelli” di Musashi Miyamoto e ascoltavo qualsiasi cosa che fosse hardcore e cupa. Ma era anche un periodo molto dinamico della mia vita. A quel tempo avevo appena lasciato Milano per Bologna, non si stava molto in casa se non per scrivere e fare musica. Internet era agli albori e avevo una vita sociale piuttosto attiva. Più che le influenze artistiche, mi hanno influenzato le persone intorno a me. Le persone che mi circondavano erano tutti grandi artisti con grandi personalità.

Come fu accolto l’album all’epoca? Essendoci meno mezzi per raccogliere le testimonianze, oggi potrebbe non essere così facile ricostruire il contesto in cui vide la luce, per qualcuno che non c’era.

Non era un bel periodo musicalmente parlando. Cominciava allora un decennio di sipario sul rap italiano. In generale quei pochi canali di informazione che esistevano allora, mi pare ne parlarono piuttosto bene ma fu il mio primo (e ultimo) disco con un’etichetta (la Jackpot di Neffa). L’eccessiva cupezza dei testi e l’assenza di un singolo non lo fecero mai arrivare a nessun network, però funzionò molto bene ai live.

Il disco è stata una delle rare occasioni per sentirla in veste di beatmaker. Vuole parlarci di quel percorso?

Erano i miei primi passi come beatmaker. Prima di allora avevo solo prodotto 2 tracce per Joe Cassano (R.I.P.), Dio Lodato e Flow dopo Flow. Conoscevo a stento le funzioni di un campionatore e un banco mixer mi era del tutto alieno, ma ci dovetti mettere le mani comunque, più che altro perché non lo avrebbe fatto nessun altro. Fortuna che la maggior parte delle tracce le produsse Deda che ne sapeva a pacchi.

“L’anno del Drago”, mi corregga se sbaglio, era l’allora imminente 2000. I tempi di riciclo nel rap sono sempre stati piuttosto brevi ed è mia opinione l’ascesa della rete a principale canale di diffusione musicale, li abbia ulteriormente accelerati. Quali sono stati a suo avviso i costi e i benefici di questa rivoluzione? Ritiene che anche oggi “ogni guerriero che ne sa debba stracciare il massimo”?

L’avvento di internet ha cambiato tutto. Ha concesso a tutti più opportunità ed ha permesso ad artisti come me di potersi promuovere senza passare per la mentalità delle vecchie case discografiche o di dover sottostare alle varie marchette radiofoniche. Ma ha anche creato mostri oltre ad aver cambiato le carte in tavola. Una volta era indispensabile riuscire a crearsi un seguito ai live, oggi molti artisti raggiungono il successo grazie alla sovraesposizione mediatica, senza avere nessuna esperienza di come si tiene un palco. Ovviamente il risultato sono dei live inascoltabili, artefatti, molto simili al playback degli anni ’80.

Ho sempre avuto l’impressione diversi suoi testi si prestino a più di una chiave di lettura. Un caso particolarmente interessante a mio è avviso è “Arkham Asylum”. “È come un carcere, se vuoi qualcosa qui la devi estorcere” mi è sempre sembrata una constatazione calzante sia per la scena hip hop, che per la vita di tutti i giorni. Conferma o smentisce?

Il concetto di “Arkham Asylum” era complesso e forse ambizioso. Ricordo di essermici perso parecchio. Quello che forse resta in sostanza, è che per quanto tu possa volerne uscire, fuori ci saranno comunque altri pazzi.

Nonostante si sia sempre distinto per un’attitudine piuttosto cupa, la titletrack del suo secondo lavoro solista lascia spazio non dico all’ottimismo, ma quantomeno a una non esclusione sistematica della speranza di giorni migliori. Tra l’altro, ho sempre trovato singolare il fatto il titolo ufficiale “-/-/-/-/-“ sia fondamentalmente incomunicabile. Ce ne vuole parlare più nel dettaglio?

A quel tempo chiunque mi diede del folle per quella scelta. In effetti ebbi molti problemi, per via della difficoltà degli addetti alla distribuzione nel catalogarlo. Ma sentivo moltissima pressione per quel disco. Il secondo lavoro di ogni musicista in genere è quello più difficile e il più sofferto, specie se il primo ha riscontrato un parere favorevole. Riconfermarsi è fondamentalmente riuscire a evolversi.

Sebbene personalmente sia dell’idea si possa fare dell’ottimo rap senza dire sostanzialmente nulla, nella sua maniera di operare ogni frase ha un peso specifico piuttosto elevato. Oggi probabilmente la prima tendenza è stata esasperata anche perché, per motivi che con la musica tutto sommato c’entrano poco, c’è stato un generale impoverimento nel vocabolario e nella capacità di comprensione dei linguaggi della gente. Il discorso sarebbe chiaramente molto più ampio e complesso ma qual è la sua opinione a riguardo?

Tecnica, virtuosismo, contenuti: non necessariamente devono essere il centro di una composizione. Personalmente non riesco a farne a meno ma non ritengo siano indispensabili. Tuttavia mi sembra che ci sia una sorta di adeguamento da parte degli artisti, specie quelli arrivati al mainstream, ad un generale impoverimento culturale. Non si cerca più di evolvere e di crescere col proprio pubblico, si cerca di restare il più possibile in quella fascia di immaginario che va dai 13 ai 20 anni. La fascia di ascoltatori/consumatori più redditizia per le radio e le etichette discografiche.

Infine, dato che mi è parso di capire da precedenti interviste il rap occupi sempre meno spazio nei suoi ascolti, vorrei chiederle cosa ascolta Kaos nel 2019.

Generalmente molta meno musica di prima e raramente rap. Mi risulta sempre più difficile trovare canzoni che mi emozionino ma ho ancora interi universi musicali da esplorare. Generi di cui non so praticamente nulla, a differenza della musica legata al mio ambiente. Per cui non mi viene spontaneo operare un’analisi dettagliata del testo, dell’arrangiamento e dei suoni. Semplicemente li ascolto.

Grazie mille per averci concesso un po’ del suo tempo.

Grazie a voi.

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