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Bisogna fare quello che conviene: riscoprire Bugo

Solo il tempo saprà dirci se dalla grottesca bagarre sanremese Bugo se n’è uscito con un centro pieno o con un gigantesco piede sulla merda. Difficile capire se la sua partecipazione al Festival della Canzone Italiana sia stata pura esigenza artistica o un ultimo tentativo di rientrare in quel giro giusto da cui è uscito quasi un decennio fa, fagocitato come tanti dall’it-pop e da tutte le derive della scena cantautorale italiana che per certi versi lui stesso aveva anticipato a tempo debito.

Non è questa la sede per cercare di capirci qualcosa, e nemmeno ci interessa, d’altronde Bugo e il suo (ex) amico Morgan sono ormai sulla bocca di tutti, vincitori assoluti delle chiacchiere sanremesi, protagonisti di meme e dei più bassi talk show televisivi, insomma di tutto ciò che non ha a che fare con l’arte.

Quel che è certo è che vederlo lì spaesato sopra quel palco, travolto da una baracconata troppo grande, ci ha fatto salire un po’ di autentica nostalgia e voglia di rivivere la sua carriera, riascoltare i suoi dischi più belli e sinceri e, perché no?, farli scoprire e capire anche a chi magari lo ha conosciuto solo in queste settimane e di certo si è fatto sicuramente un’idea sbagliata di chi sia realmente Bugo

La prima gratta, 2000 (Bar La Muerte / Snowdonia)

Ne ha passate tante Bugo, ha abbracciato tantissime sonorità, dal folk al synth pop, dal lo-fi all’indie, dal cantautorato all’elettronica, e tutto è partito da qui. “La prima gratta” usciva per le minuscole ma gigantesche Bar La Muerte e Snowdonia, due etichette che da queste parti abbiamo sempre adorato, con la prima che manca un sacco e la seconda che in questi anni non ha mollato un colpo nonostante tutto e tutti. Ci sono qui dentro le bozze di quella che sarà la sua carriera, e forse è il disco più autentico e istintivo dell’intera discografia. Pezzi registrati in perfetto stile lo-fi, privi di alcun tipo di produzione e pervasi da un’aura a metà tra il genio e l’idiozia. Ne “La prima grattaBugo fa un po’ tutto quello che gli pare senza preoccuparsi di nulla o rispettare alcunché. Prende Battisti, Gaetano e un po’ tutto il cantautorato che gli va dietro e lo disintegra in Quante menate che mi faccio, anticipa di due decenni l’it-pop e la sua patetica ossessione per il quotidiano ne Il cellulare è scarico, regala uno dei pezzi più belli a chi è stato lasciato (Spermatozoi), intrattiene con schegge noise e garage (Sabato mattina, Cicca nei capelli iea!), inquietanti incubi di noise e manipolazioni elettroniche (Malecane virtuale, Gocce di vita) e improbabili pianobar (Oggi come sto), fa il verso al cantautorato impegnato (Guccini, che ci fai qua?) nella splendida Addio alle canzoni di una volta, emoziona davvero con il ritratto grigio e crudo della solitudine nella provincia (Solitario). Cringe a tratti, ma assolutamente adorabile, Bugo era la voce, o almeno una voce, dell’inadeguatezza che si prendeva finalmente la scena. O forse era un folle che dava voce ai suoi istinti come avremmo voluto fare tutti. Fate voi.

(F.G.)

La terra gira, hai la nausea, ognuno pensa a fare pausa, le stringhe stringono forte e tu ti senti un solitario

Sentimento Westernato, 2001 (Wallace Records, Bar La Muerte)

Passa davvero pochissimo e Bugo cala il bis: “Sentimento Westernato” esce a pochissima distanza da “La prima gratta” e lo consacra definitivamente. Rispetto al precedente, che era un collage bipolare di emozioni, è realmente un disco con una certa progettualità di fondo e una produzione decisamente più curata. Lo stesso Bugo lo definisce “il disco acustico di Bugo“, forse riferendosi alla mancanza di quelle divagazioni elettroniche che facevano capolino nel primo episodio. In realtà la tracklist si divide più o meno equamente tra pezzi chitarra-voce e pezzi elettrici di stampo garage. È nella prima categoria che, per chi scrive, sono raggruppati i pezzi migliori; Vorrei avere un Dio, Bisogna fare quello che conviene e Quando siamo stanchi sono due tra i brani migliori della carriera di Bugo, inni generazionali amari che spargono sale e sarcasmo sulle ferite interiori che ogni giorno si aprono sempre di più. Certo, è svanito l’effetto sorpresa e per il resto “Sentimento Westernato” scorre via senza troppi sussulti, regalando comunque qualche bel momento, soprattutto nei suoi esperimenti blues: Io berrò alcool, Pepe nel culo e Son drogato di lavoro ci mostrano un Bugo scarno, minimale ma non certo inefficace, così come Bicchiere nella birra e L’amore è spentoff affinano i pezzi dell’arsenale più prettamente rock. Pazzo, demenziale o genio, dopo “La prima gratta” serviva solo una conferma: Bugo sa scrivere canzoni.

(F.G.)

Questa insicurezza nei rapporti la sistemerò quando avrò i capelli corti, come un cane senza il suo guinzaglio vorrei avere un Dio anch’io

Dal Lofai al Cisei, 2002 (Universal)

Erano gli anni delle scuole superiori, ed erano gli anni in cui ci si annoiava perché si aveva troppo tempo per le mani e quindi si cercava di scavare nei negozi di dischi, sulle riviste e si languiva sbattuti davanti allo schermo del televisore in cerca di roba che spezzasse la routine, spesso ci si riusciva e altrettanto spesso ci toccava(mo con) Christina Aguilera. Un giorno passa questo video, con ‘sto basso di cartone che spara dentro a questa storia di imbruttiti che se la spassano a casa. Il testo ci friggeva il cervello, la musica scostante e sfasciata, il cantante un disadattato incredibile con una voce smontata e ammorbante. Niente a che vedere con quelli che già ci divoravamo da un po’ di tempo, che in fin dei conti erano dei “fighi”, quegli Agnelli, Godano, Morgan (UH!) che, pur con la loro aura di alternatività, non potevano competere con questo tizio, questo magnifico sfigato. Noi non eravamo come loro (ci provavamo, spesso con scarsi risultati), ma come lui. Eravamo come Bugo. Casalingo era un vero inno, un anthem. Ci venne subito in mente Beck, come a tutti sempre e comunque, ma in quello stesso anno mr. Hansen non era più un loser, col cazzo, era già un gran figo, girava coi Flaming Lips e il suo nuovo album era ben strutturato. Poi Beck stava a L.A. Bugo è di Rho e cresciuto nell’entroterra novarese. Essere figli della provincia fa schifo (chi inneggia a quanto quest’ultima ci abbia forgiati mente sapendo di mentire) e Bugo ne cantava le estreme conseguenze. Trovare “Dal lofai al cisei” si rivelò un’impresa impossibile, ma un amico di un’amica ce l’aveva e me lo masterizzò (scusatemi) e io ci persi le giornate e la testa, immergendomi in quella merda di spleen che mi faceva a pezzi dal ridere. Io mi rompo i coglioni divenne il mio inno, perché sì, io mi rompevo i coglioni, ed erano più i giorni in cui mi sentivo come il marciume acustico del brano, poi chi era questo GG Allin? Ecco, grazie a Bugo ho scoperto GG Allin, e non dovrei ringraziarlo? Dovrei farlo anche per Con il cuore nel culo, perché lì me lo sentivo, e in effetti non avevo tutti ‘sti gran sentimenti da esprimere, e chissà chi era la cantante che lo diceva alla radio ascoltata da Bugo? Le allucinazioni westernate (e io che ne sapevo del disco prima? Una mazza) di Piede sulla merda, un anno prima di Cani e padroni di cani degli Elii, ma chissà se voleva farci ridere Cristian, oppure si sentiva solo addosso il peso del marcio della metropoli, un colpo di sfiga e una vecchia con la borsa che la prende con filosofia, tanto le sue scarpe sono pulite. La paranoia della grande città che piove noise su Milano tranquillità ed era una cosa pazzesca per un tizio italiano, per me, scrivere un tale abisso elettrico che si contorce nello stomaco che digerisce ancora il lo-fi sgasato di Pasta al burro con le chitarre cattive a cui ripensavo mentre inforcavo i fusilli al burro, mentre mi gasavo per il nulla che ero. Capite? Non è roba da poco, per chi si faceva schifo, sapere che c’era in giro uno come Bugo. Ignoravo che ben presto avrei provato tristezza e non gratitudine per questo grandioso uomo ordinario. Ma forse non importa. Si, in fondo, che cazzo me ne frega.

(F.M.F.)

Cosa non va bene nella mia testa? Sovraeccitata, non funziona. Cerco una scusa, un cristallo. Brillantini sul viso, mi sento meglio. Nella mia testa cresce il contenuto del portacenere.

Golia e Melchiorre, 2004 (Universal)

Se volete capire cos’è (o cosa è stato) Bugo per certi versi si può benissimo partire da qui. “Golia e Melchiorre” è l’opera omnia del cantautore piemontese, un disco gigante, troppo, che per una buona metà soffoca l’ispirazione di Bugo. Diviso concettualmente in due metà complementari, “Arriva Golia!” è un disco elettrico di pop-rock suonato, pensato e prodotto con tutti i crismi – più o meno brutti – del caso, “La gioia di Melchiorre” – scritto con Joe Valeriano – un toccante ritorno agli esordi, un disco di pezzi e ballate folk solo chitarra e voce. Nella prima metà largo al cazzeggio più totale, ma Bugo è poco convinto e forse annoiato. È comunque sempre pieno di idee deliranti nella testa, che trovano vita in alcuni brani piacevoli, altri molto meno, ma tant’è, prendere o lasciare. Cito per dovere di cronaca Carla è Franca, dedicato ai maniaci della dieta, Hasta la schiena sempre, incredibile rap sul mal di schiena, Il sintetizzatore, elegia non richiesta dello strumento in salsa per forza di cose synth pop, e stop. Il meglio il nostro Bugatti lo dà sicuramente ne “La gioia di Melchiorre“, nel quale sembra essere libero da costrizioni di mercato, ispirato come nell’esordio, ma più maturo, vissuto. Il risultato è una sequenza di brani memorabili, con alcuni episodi davvero altissimi. Difficile scegliere tra l’amara Rimbambito, struggente sintesi di una vita, e la rassegnata Che diritti ho su di te, o ancora sulla scura Sentirsi da cane o sulla tenera Guardo su: prendetelo tutto d’un fiato e fatelo vostro, è lo specchio e la vetta – almeno per quanto riguarda il versante folk – di un cantautore unico nella scena e che dimenticare, o peggio ancora confondere con le sue recenti immagini sbiadite, sarebbe un peccato capitale

(F.G.)

cosa è importante? cosa non lo è? cosa è importante? chiedo a te, dammi una risposta

Chiudiamo qui il nostro viaggio, perché qui si chiude anche il viaggio del Bugo che abbiamo nel cuore. È vero, in seguito non sono mancati lavori di qualità, che vi consigliamo comunque di scoprire o riscoprire – “Contatti” (2008) su tutti – ma alla lunga l’animo di Bugo si è come appiattito, affaticato nel tentativo di entrare in quel giro giusto che canzonava con distacco, sarcasmo e forse non era proprio così. Bugo si è normalizzato e noi delle cose normali non sappiamo che farcene.

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