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The Districts – You Know I’m Not Going Anywhere

2020 - Fat Possum
indie rock

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Tracklist

1. My Only Ghost
2. Hey Jo
3. Cheap Regrets
4. Velour and Velcro
5. Changing
6. Descend
7. The Clouds
8. Dancer
9. Sidecar
10.And the Horses All Go Swimming
11. 4th of July


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La storia dei Districts sembra il racconto di uno di quei film americani tardo adolescenziali sui sogni di gloria di tanti ragazzini moderni. I protagonisti si chiamano Rob Grote, Connor Jacobus, Braden Lawrence e Pat Cassidy. Lo schema è molto semplice: due chitarre, un basso e una batteria, pochi fronzoli e giornate intere passate a provare in diversi scantinati della piccola cittadina di Lititz, in Pennsylvania.

Il lavoro, intenso e appassionato, porta nel 2012 all’autoproduzione di “Telephone”,un discreto album di inediti. Poi i live, che su base locale riscuotono grande successo e che richiamano l’attenzione della Fat Possum Records, ormai punto di riferimento dell’alt rock statunitense. I quattro di Lititz firmano così il loro primo contratto per i discografici di Oxford e si trasferiscono a Philadephia.

Qui finisce la favola e inizia la dura realtà, fatta di lavoro in sala prove e la necessità di confrontarsi con affermati professionisti della registrazione, produzione e distribuzione di dischi. Ovviamente, più di un occhio è rivolto al controllo dei dati di vendita.

Dopo “Telephone” sono usciti “A flourish and a spoil” (2015) e “Popular manipulations” (2017), due full length che hanno fatto conoscere i Districts anche al pubblico europeo. Due album diversi, sia in termini musicali che di qualità: il primo è stato un lusinghiero fulmine a ciel sereno, mentre quello successivo ha leggermente ridimensionato i complimenti degli esordi.

You know I’m not going anywhere” è la prova del nove, la conferma del fatto che si tratti di una buona band indie rock oppure soltanto di un velleitario tentativo di portare al successo artisti sopravvalutati. Sul piano commerciale, prima dell’uscita sono stati pubblicati due singoli – Velour and velcro e Cheap regrets – mentre nel giorno stesso dell’annuncio del nuovo disco è stato distribuito in streaming gratuito l’ulteriore singolo Hey Jo.

Il disco parte con My only ghost, un buon pezzo introduttivo, che fa da preambolo al singolo Hey Jo, una malinconica lettera scritta a Daniel Johnston. Mai rimpianto abbastanza, Johnston è considerato l’outsider per eccellenza, uno dei padri fondatori del movimento indie moderno. In eredità ha lasciato un immenso patrimonio artistico e culturale, non stupisca che una quantità incredibile di artisti – Tom Waits, Beck, Eels, Flaming Lips, Mercury Rev, Death for Cutie, solo per citarne alcuni – gli abbia tributato almeno qualche minuto della propria produzione. Il papà dei piccoli indies non poteva che essere omaggiato con una ballad indie-style.

Il segno dei tempi che cambiano è raccontato in Cheap regrets, piccolo resoconto di un artista che ha finalmente raccolto il tanto agognato successo ma che, guardandosi allo specchio, trova “a little bit of nothing, and a whole lot of fame”.

C’è spazio anche per un po’ di sano christian rock in salsa U2 (Velour and velcro) e, sempre strizzando l’occhio a Bono Vox e soci (Changing), per un’altra ballad dal testo incerto, a tratti sconclusionato.

Tra i tanti stili provati in passato dal gruppo manca forse il folk, lacuna colmata con Descend, qualcosa a metà strada tra il racconto di un uomo condannato a morte e un amore finito in tragedia. Il pezzo regge fino al finale smaccatamente lisergico, che stona decisamente con il resto.

Un punto di passaggio ad un’immaginaria seconda parte del disco può essere The clouds, ma il cambio di passo, se arriva, è compiuto solo a metà. Il punto più alto del disco – insieme a Hey Jo – è senza dubbio la sperimentale Dancer, dove ad accompagnare la voce di Grote ci sono una batteria ridotta alla sola cassa, la chitarra e il basso. Molto azzeccata la scelta di inserire un sax che completa un nostalgico richiamo agli anni ’80, con particolare riferimento al songwriting che aveva l’energia di David Bowie, l’eleganza di Brian Ferry e l’eclettismo dei Simple Minds.

Un buon dittico punkeggiante, almeno potenzialmente, è formato da Sidecar e And the horses all go swimming. Nella prima c’è qualcosa che ricorda finanche i Placebo, mentre la seconda si perde un po’ strada facendo dopo un incalzante incipit in stile Stranglers. Il disco si chiude con la malinconicamente patriottica 4th of July.

Dal punto di vista generale, “You know I’m not going anywhere” sfoggia riff e arpeggi semplici e orecchiabili – ormai marchio di fabbrica della band – a supporto di testi che, nella maggior parte dei casi, parlano di vicende quotidiane viste e vissute da ragazzi alla soglia dei trent’anni.

A differenza però dei dischi precedenti, in particolare “A flourish and a spoil”, lo stile di canto percorre sentieri diversi, finora inesplorati, con risultati non sempre convincenti. Se da un lato, infatti, la vocalità non dà punti di riferimento all’ascoltatore, indice di buona varietà compositiva, dall’altro non restituisce uno stile personale e immediatamente distinguibile. Quest’ultimo aspetto non è positivo per una band che affoga nel mare magnum della scena indie e alternative nordamericana, basti soltanto leggere il catalogo proposto dalla stessa Fat Possum.

In definitiva, rispetto ai predecessori, a “You know I’m not going anywhere” va riconosciuta una raggiunta maturità artistica, soprattutto sotto il profilo produttivo. Tuttavia, con molta onestà intellettuale, va aggiunto che i Districts che si fanno preferire sono quelli genuini e liberi degli esordi.

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