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Interviste

Materializzare lo spirito, spiritualizzare la materia: l’urgenza artistica di LUCA T. MAI

Luca T. Mai è l’uomo dietro al sax di tanti progetti, partendo dagli Zu e approdando ai Mombu. E proprio mentre gli Zu sono in studio per dare alla luce il loro nuovo album lui esce con “Heavenly Guide” (qui la nostra recensione). Ne abbiamo dunque approfittato per parlarne con lui.

Ciao Luca, anzitutto grazie per la tua disponibilità. Iniziamo subito: cosa si cela dietro al titolo “Heavenly Guide”?

Grazie a te. È difficile trovare le parole giuste ma farò del mio meglio. “Heavenly Guide” è l’esperienza di convivere reagire subire e sopravvivere a cuore aperto a un lutto che ha travolto la mia vita. Per anni non mi sono mai sentito all’altezza di pubblicare un disco solo, poi la vita mi ha fatto capire che le scelte sono molto più semplici di come ce le rappresentiamo.

A mio avviso il disco ha due anime distinte: una che sembra guardare alla materia jazz più, diciamo così, “classica”, pur racchiuso nel tuo suono peculiare, e una che pare abbracciare un lato più avant. È come se avessi voluto racchiudere in un solo lavoro tutti (o quasi) gli elementi che hanno contraddistinto i tuoi progetti. È una visione corretta o sono proprio fuori strada? Ci ho sentito anche molta urgenza.

È un lavoro sincero, di getto e si, con molta urgenza. C’è il mio passato, presente e futuro, un omaggio a coloro che, con migliaia di ascolti mi hanno forgiato come musicista e una sperimentazione sonora per vedere fin dove posso spingermi e trovare nuovi territori.

Ovviamente ho sentito un certo riverbero di spiritualità tra i vari brani. Quanto c’è di spirituale e quanto di materiale nel tuo album?

Come dicevano gli antichi alchimisti “Materializzare lo Spirito e spiritualizzare la materia”.

E a proposito di jazz in senso stretto, hai scelto di rievocare Eric Dolphy con Gazzelloni. Come mai proprio lui? “Out To Lunch!” è uno dei miei dischi preferiti in assoluto, ho pure avuto la fortuna di trovarlo in vinile malamente abbandonato in un triste mercatino dell’antiquariato. Non è così scontato chiamarlo in causa, secondo me.

Su “Out To Lunch!” sfondi una porta aperta!!! È un disco superbo, magistrale, multi direzionale è uno dei pochi dischi “jazz” che mi ascolto sempre con gioia e attenzione. La critica segna sempre come punto di svolta il disco di Ornette Coleman “Free Jazz”, in cui tra l’altro suona Dolphy, ma se lo si ascolta oggi è datato e rappresenta quel preciso periodo storico, a differenza invece di “Out To Lunch!” che ha un respiro atemporale. Dolphy è una, se non la ragione per cui iniziai a suonare. Per me è la naturale prosecuzione sull’alto sax di Charlie Parker, con il suo linguaggio originale, con i suoi salti assurdi e quel suono inconfondibile su tutti e tre gli strumenti che suonava. Con Dolphy non si finisce mai di imparare.

Sono ormai più di 20 anni che spazi in lungo e in largo nel mondo della musica “altra” coi tuoi vari progetti (a tal proposito ne approfitto per dirti che mi mancano i Black Engine, uno dei miei preferiti). Come mai oggi hai scelto di uscire con un album in solitaria? Ho letto nella scheda tecnica che lo hai registrato due anni fa. Qual è il percorso creativo che hai seguito per comporlo e registrarlo?

Erano anni che pensavo di ringraziare Eric Dolphy, Thelonius Monk, Coltrane e tanti altri, non è escluso che non lo faccia su altri dischi; ho registrato più materiale loro, ma non ero soddisfatto e l’ho scartato. Poi, come ti dicevo prima è stato più un moto di spirito che una decisione presa a tavolino. Oltre a Epistrophy e Gazzelloni avevo degli appunti che poi ho definito in studio, abbiamo piazzato 5 microfoni e abbiamo cominciato a registrare. 

Hai collaborato con la creme delle avanguardie. C’è qualcuno con cui vorresti ancora suonare? Magari qualche personaggio diametralmente opposto a te.

Ce ne sono tanti: da Terry Riley ad Adrian Sherwood fino a Fredrik Thordendal.

Ho spesso avuto modo di ribadire, nei miei vari articoli, di come con gli Zu siate riusciti a esprimere più concetti non utilizzando mai le parole di tanti altri che invece lo hanno fatto. In un’epoca in cui queste parole vengono spesso abusate in un sovraccarico di pareri e informazioni quant’è importante il ruolo della musica strumentale, per te?

Importantissimo, ma mai quanto il silenzio.

Al contrario, quali artisti/gruppi secondo te hanno ancora tanto da dire, utilizzando il linguaggio puramente verbale?

In questo Kali Yuga la mediocrità è il vero virus, ma la tragicommedia è che è percepita come normalità e quindi ci si ritrova con dei personaggi, la cui propensione naturale sarebbe di avere un giogo al collo e trainare un aratro, che invece fanno e sono considerati  “grandi” artisti. Sia chiaro non lo dico da rosicone, ma da semplice osservatore di una realtà ribaltata. Anche se ritornasse Gesù Cristo a predicare durerebbe il tempo di un post . 

Come ultima domanda, inevitabilmente, vorrei gettare un po’ di benzina sul fuoco che arde tra i lettori di Impatto Sonoro in attesa del nuovo album degli Zu (oggi si direbbe alimentare l’hype) chiedendoti semplicemente di definirlo con una sola parola.

Eroico.

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