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“I’ll Sleep When You’re Dead”, quando il rap arriva da un altro pianeta

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Della primavera del 2007 ricordo poco e niente, ma avendole conservate e consultate nuovamente per anni, posso assicurare che quasi tutte le riviste musicali, non solo quelle specializzate in hip hop e derivati, si dichiararono entusiaste di “I’ll Sleep When You’re Dead.

L’autore veniva descritto come un innovatore spregiudicato e geniale dell’arte di declamare versi su beat in quattro quarti. Tanto bastava per attirare la mia curiosità peccato che nonostante un pellegrinaggio in tutti i negozi di dischi nel raggio di cinquanta chilometri, il disco si rivelò sostanzialmente irreperibile. Dovetti quindi rimandare l’entrata nel magico mondo di Jaime Meline a circa un anno dopo, quando anche nel mio paesino sperduto tra le risaie divenne possibile installare una linea ADSL. Che posto noioso il mondo prima di internet.

Non ero pronto per quelle architetture spigolose, quelle stratificazioni sonore talvolta così indecifrabili da rasentare la cacofonia, quei ritmi martellanti dall’andamento imprevedibile. Men che meno per quella verbosità apparentemente inarrestabile, in grado di sovraccaricarti d’informazioni le sinapsi in pochi secondi.

El-P prendeva tutto quello che sapevi del rap, ti dimostrava che era sbagliato, lo smontava pezzo per pezzo e te lo restituiva riassemblato secondo quella che aveva tutta l’aria di essere la logica di un altro pianeta.

In effetti non esisteva allora e non esiste adesso un lavoro più adatto di altri per avvicinarsi alla sua musica: ogni progetto su cui ha messo le mani dal ’96 in poi fa storia a sé. Anche avessi avuto modo di passare prima dalle asperità di “Funcrusher Plus”, le distorsioni di “The Cold Vein” o la caoticità schizoide del suo esordio solista, la necessità di dover imparare da zero un linguaggio nuovo non sarebbe venuta meno.

Ve lo immaginate Trent Reznor che canta il ritornello di un pezzo inequivocabilmente rap, incentrato sul ritrovare la fede in Dio durante un disastro aereo? Non è nemmeno la cosa più anomala da segnalare in queste tredici tracce. Il disorientamento è totale sin dall’iniziale Tasmanian Pain Coster : l’apertura affidata a un dialogo estrapolato da “Fire Walk With Me” di Lynch e l’atmosfera straniante creata da un pastiche elettronico costruito attorno a un sample preso in prestito agli Electric Light Orchestra, hanno tutta l’aria di volerci condurre al di fuori dell’atmosfera terrestre. Invece a sorpresa la narrazione si svolge nella metropolitana di New York, dove l’incontro fortuito con un conoscente in preoccupanti condizioni psicofisiche, diventa pretesto per affrontare il senso d’incertezza e le nevrosi da cui la città è ancora dilaniata a un lustro abbondante dall’11 Settembre. La pesantezza dell’incedere viene spezzata da un finale che vede protagoniste chitarra e voce dei Mars Volta.

L’unicità del lavoro non risiede certo esclusivamente nella scelta di collaboratori così distanti dal mondo urban, a dispetto dei quali la filosofia e la poetica dell’hip hop non smettono mai di essere centrali. Lo stomp ubriacante di Smithereens, ottimo pretesto per versare soda caustica sulla superficialità della maggior parte dei rapper, potrebbe tranquillamente passare per una rilettura dei primi Public Enemy. La moltitudine di microcampionamenti si risolve in una deflagrazione straniante e rumorosa, una palpabile sensazione di Apocalisse imminente. Pezzi come EMG, No Kings e Drive, nonostante la notevole obliquità sono quanto di meglio si potesse sentire allora in materia di batterie che bastonano e flow malatissimi. Col senno di poi, i prodromi di quello che sarebbero stati i Run The Jewels.

L’amore dell’autore per Philip K. Dick e Ray Bradbury emerge prepotentemente in Dear Sirs, che in perfetto stile industrial si affida al furioso picchiettare sui tasti di una macchina da scrivere per esprimere il proprio dissenso nei confronti delle istanze guerrafondaie di Bush Jr., e nell’inaspettata love story tra una guardia e una detenuta in una prigione segreta di Habeas Corpses, col compagno d’etichetta Cage a interpretare il ruolo del compagno d’armi che cerca di dissuadere il protagonista dai propri propositi. Della fine di una relazione ben più canonica, per quanto vissuta in maniera estremamente sofferta, parla invece The Overly Dramatic Truth, sorretta da un indimenticabile giro di basso e graziata da un arrangiamento che definire di classe è riduttivo. Ah, dimenticavo, le backing vocals sono di Daryl Palumbo dei Glassjaw.

Semplicemente folle risulta il passare dallo struggente all’estremamente rumoroso di Run The Numbers, con Aesop Rock a tenere banco e tutti gli mc per favore a casa a studiare. In chiusura ci stanno benissimo l’omaggio ad Alan Moore di The League Of Extraordinary Nobodies, la quale però racconta la non edificante esistenza di chi tende ad abusare della cocaina e tra le righe, la personale battaglia di El-P con questo deleterio stile di vita, e lo splendido duetto con Cat Power su Poisenville Kids No Wins, forse il pezzo più “normale” del lavoro col suo effetto “versione hardcore di Jay-Z e Beyoncé” (ma attenzione che in coda c’è un’altra invenzione che ai coniugi Carter non passerebbe mai nemmeno per l’anticamera del cervello).

Ad oltre dieci anni dal primo ascolto, risulta ancora molto difficile riordinare le idee attorno a un lavoro del genere. Innanzitutto per la sua stessa essenza mutevole in maniera repentina da una traccia all’altra e talvolta, all’interno di un singolo episodio. In secundis perché non solo non assomiglia a nulla di quello che l’autoreha fatto prima o dopo, non assomiglia a nient’altro e basta. Se mai lo stress post traumatico potesse avere un suono, mi verrebbe da dire che sarebbe quello di “I’ll Sleep When You’re Dead”.

Improbabile medium degli anni zero, El-P è riuscito a fare dialogare i propri fantasmi con quelli di un’intera nazione, denunciandone l’inarrestabile imbruttimento davanti a sconvolgimenti di portata epocale. Allo stesso modo è riuscito a mantenere un approccio radicalmente e fieramente hip hop pur attingendo da mondi lontani anni luce da esso, la lista degli ospiti che hanno deciso di accompagnarlo in questo viaggio parla da sé. Non era e non voleva essere un disco per tutti ma a quei coraggiosi che volessero addentrarvisi, rischia seriamente di offrire un cambio di prospettiva non indifferente.

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