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Black Tail – You Can Dream It In Reverse

2020 - Mia cameretta / Lady Sometimes
indie folk / americana

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Qualcuno sostiene che l’indie italiano sia in crisi. Tra le varie generalizzazioni che si fanno intorno al termine indie, cercando invano di tracciare i confini della cosiddetta scena alternativa nostrana, sarebbe forse più opportuno contestualizzare il discorso. Il quesito dovrebbe essere non tanto sullo stato di salute, quanto piuttosto sulla sua funzione artistica.

Detto in parole povere, l’indie attraverserà sicuramente una crisi qualitativa – benché a tasche piene – fino a quando lo scopo degli artisti sarà quello di presenziare a un talent in qualità di giudici oppure autoproclamarsi superospiti a Sanremo. Se invece si ragiona come Cristiano Pizzuti, in futuro verranno piantati sempre più semi in grado di produrre musica di ottima qualità.

I laziali Black Tail nascono dalle macerie dei Desert Motel, una band in grado di importare efficacemente il genere definito americana, un alt rock a forti tinte cantautorali. Il punto di partenza è rappresentato dai padri fondatori del genere, vale a dire Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen, ma è dagli anni ’90, con i moderni Elliott Smith, Wilco e Sparklehorse, che il genere sembra aver preso una piega diversa. “Yarn”, nel 2011, è stata l’ultima grande tappa del viaggio dei Desert Motel, un viaggio che l’anno successivo è ricominciato, spinto di nuovo dall’estro di Pizzuti.

Nei boschi appena fuori Boston, Cristiano si trova insieme ad alcuni amici quando vede spuntare un cervo dalla coda nera. Il paesaggio rurale americano, la solitudine di quei posti che non sono città né provincia, il desiderio di riprendere a raccontare qualcosa, fanno sì che quella coda nera diventi l’ispirazione intorno alla quale iniziare un nuovo corso.

Ancora in collaborazione con l’etichetta indipendente Mia Cameretta, coadiuvata da Lady Sometimes e supportata dalla strumentazione e dall’ingegneria sonora dell’ottimo Filippo Strang, il 13 marzo esce “You can dream it in reverse”, terzo album dopo gli ottimi “Springtime” (2015) e “One day we drove out of time” (2017). Nei due precedenti lavori il titolo nascondeva il messaggio che Pizzuti (voce, chitarre e tastiere), Roberto Bonfanti (batteria e percussioni) e Luca Cardone (basso) volevano inviare all’ascoltatore, una sorta di motivo che ha portato a scriverne i pezzi.

Non fa eccezione “You can dream it in reverse”, che in nove tracce compie un onirico viaggio indietro nel tempo: l’adolescenza rivissuta con gli occhi di un adulto, che ripercorre i sogni musicali della sua gioventù. Adesso è il momento giusto per scrivere l’album voluto a sedici anni, ma allo stesso tempo non è possibile. Oggi, come allora, la realtà circostante spinge verso posti diversi rispetto a dove l’autore desidera andare. E’ per questo che nasce l’esigenza di comunicare disorientamento, in un mondo che ora dopo ora cambia il suo linguaggio, anche musicale.

Sotto il profilo musicale, il disco vive di un’equilibrata contrapposizione tra arpeggi cristallini e riff distorti. In sottofondo, talvolta si ascolta il rumore di nastri sporchi, proprio a voler rimarcare il suono di quelle registrazioni adolescenziali fatte in casa con mezzi di fortuna. La voce di Cristiano poggia in modo efficace sull’intero impianto sonoro, planando sulla musica in modo discreto, senza sovrastare il resto.

“You can dream it in reverse” è un disco pieno di rimpianti, il racconto di innumerevoli errori, affrontati però con sano fatalismo e non con rassegnazione. Non è mai un “se fosse andata in quel modo, forse ora…”, bensì “sono qui anche grazie a…”. Molta importanza viene data anche alla descrizione degli scenari circostanti – dal negozio all’angolo di casa all’albero che si appoggia sul terreno, uno spazio nel quale ci passa la città intera – istantanee che cristallizzano il momento in cui il singolo pezzo sta venendo al mondo.

Il lavoro può essere idealmente diviso in tre parti. Una buona introduzione (China blue) centra subito il punto del discorso: “I get statics on the radio and I feel so far from home”, un tema urbano e di cattivo adattamento alla realtà cittadina che viene ripreso in Stars colliding. C’è appena il tempo – in Sequoia – per trovare conforto in una canzone radicata in fondo al cuore, come un albero secolare.

La parte centrale dell’album è dedicata all’amore, quello che da giovani travolge in modo spontaneo e conduce le giornate su sentieri fatti di cose semplici. Un amore iniziato con il rumore delle labbra durante un sorriso (The great comet of 1996), finito ucciso da denti vitrei e mani ardenti (Sun) e che insegna a non commettere gli stessi errori (Apple trees).

L’ultima parte è decisamente più introspettiva. Gli strascichi degli errori commessi comportano un malessere fisico (Not OK), per affrontare il quale ci si chiude in se stessi per non dare la colpa a nessuno. Poi però è tempo di reagire (Late summer), prendendo tutta la confusione – un tempo fiorita e ora ingiallita – e bruciandola come un mucchio di foglie secche.

Il finale (Firecracker) è affidato al racconto di un uomo che si sente talmente estraniato dal mondo che lo circonda da considerarlo alla stregua di un film. Chi, come lui, nella vita ha spesso intrapreso la strada sbagliata, finisce poi per rovinarne il finale. E questo è tutto.

Sometimes I just have the feeling
that the real world is weirdly apt
to look more like a fiction, while
when we’re on the screen we are
constantly trying to screw up the
last scene. And that’s it

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