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“Bitches Brew”: Miles Davis e la ricetta del brodo primordiale

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Dubito fortemente Miles Davis si sia svegliato una mattina dicendosi: “Adesso cambio per sempre la maniera di suonare e intendere il jazz”. Eppure è esattamente quello che è successo con l’uscita di “Bitches Brew” e non era nemmeno la prima volta. Già “Birth Of The Cool” e “Kind Of Blue” avevano costituito punti di non ritorno, col loro distaccarsi così nettamente dai dettami del be-bop, divenuto sinistramente simile a una gara a chi riusciva a suonare il maggior numero di note nel minor tempo possibile. Negli anni ’60 invece, pur continuando a sfornare ottima musica, si era dimostrato insolitamente reazionario e sprezzante nei confronti del movimento free, materia vasta e complessa in cui la differenza tra innovazione e delirio puro, effettivamente non era sempre facile da cogliere. 

Sarebbe tuttavia ingenuo vedere nel seminale album un improvviso cambio di direzione e non il consolidamento di un graduale processo di sperimentazione. Gli strumenti elettrici avevano fatto capolino negli ensemble davisiani già da diverso tempo, così come l’intuizione la tecnologia fosse una preziosa alleata. Inoltre, checché ne dicesse lo stesso trombettista, risulta assai difficile credere la tanto osteggiata new thing lo lasciasse completamente indifferente. Gli espliciti rimandi al continente africano, l’utilizzo sistematico di doppie sezioni ritmiche e addirittura triple tastiere, l’assenza di linee melodiche e di schemi predefiniti, lasciando fosse l’inventiva dei musicisti che improvvisavano a costituire la sostanza stessa dei brani, avevano ed hanno tutta l’aria di un approccio al jazz molto più free di tanti lavori coevi, con molte pretese di rivoluzione ma a conti fatti, ben poco da offrire all’ascoltatore in cerca di novità. 

Oltre che per un’invidiabile capacità di rielaborare e talvolta migliorare le idee altrui, nonché per una visione d’insieme molto simile a quella di un direttore d’orchestra, Davis era noto per il proprio fiuto pressoché infallibile nel reclutare talenti da votare alla propria causa. A leggere quanti e quali musicisti presero parte a quei tre giorni passati a sperimentare suoni e stati d’alterazione (altro che luoghi comuni, guardate una qualunque foto proveniente da quelle sessioni, erano tutti palesemente strafatti), c’è di che farsi cascare la mascella. Non ci si inganni però pensando a un baccanale scomposto guidato dall’istinto: ancor più decisivi del gusto e dell’inventiva dei musicisti intenti a jammare partendo da indicazioni minime, saranno i mesi di editing e messa a punto continua del materiale supervisionati dal produttore Teo Macero, a quanto pare l’unico da cui il leader maximo fosse disposto a farsi consigliare. 

Nell’era digitale siamo talmente abituati alle operazioni di taglio e cucito, senza le quali l’esistenza di interi generi non sarebbe nemmeno concepibile, da darle praticamente per scontate. All’epoca invece l’istrionico artista, fu accusato dagli estimatori dei suoi quintetti classici di stare nientemeno che uccidendo il jazz. In effetti di continuare a compiacere schiere di intellettualoidi inamidati, tanto bravi a darsi un tono da conoscitori di musica colta quanto poco propensi ad aprire le orecchie, non gliene sarebbe potuto importare di meno. A proposito, lo sapevate che il termine hipster viene dal gergo dei jazzisti, che negli anni ’40 lo usavano per indicare quelli che si sperticava in proclami entusiastici, al netto di una comprensione pressoché nulla delle dinamiche musicali che animavano il movimento? Comunque sia, era al pubblico di Woodstock e dell’Apollo Theater, dove qualche anno prima James Brown aveva registrato il proprio album più iconico, che puntava.

In effetti è proprio a Mr Dynamite e Sly Stone che Davis, per sua stessa ammissione,guardò nel rendere così centrale il ruolo del groove in quei torrenziali collage che avrebbero costituito i brani del disco. Si può veramente immaginare un andamento più accattivante di quello di Spanish Key, scontato che Jack DeJohnette sarebbe capace di tirare fuori un’invenzione ritmica anche soffiandosi il naso? Oppure una chitarra più funky di quella di John McLaughlin sul pezzo omonimo? La marcata componente psichedelica invece, si spiega con l’ammirazione per Jimi Hendrix, esplicitamente omaggiato tra le sincopi e le dissonanze lisergiche di Miles Runs The Voodoo Down. Da bravo volpone, preferì sovraincidere la maggior parte delle proprie parti man mano che il disegno generale prendeva forma e manco a dirlo, le cose che è riuscito a tirare fuori da quel pezzo d’ottone sono tutte di una potenza inaudita. 

Qualunque etichetta gli si voglia mettere, potete stare tranquilli “Bitches Brew” la rifuggirà. È uno schiaffone alla didattica, al manierismo, ai virtuosismi fini a sé stessi per fare vedere quanto si è bravi.

L’incauto ascoltatore che vi si avvicini pensando qualunque cosa, è destinato a essere smentito entro i primi cinque minuti Pharaoh’s Dance. Allo stesso tempo, bisogna sempre tenere conto del fatto sia lo sforzo di una prima donna, che a farsi fregare il posto al sole guadagnatosi in anni di performance maiuscole dai capelloni della Summer Of Love, non ci stava proprio. Citando dalla sua spassosissima autobiografia: “…cominciai a capire che la maggior parte dei musicisti rock non sapeva niente di musica. Non la studiavano, non erano capaci di suonare stili differenti – e non parliamo nemmeno dell’essere in grado di leggerla. Ma erano popolari e vendevano un sacco di dischi perché davano al pubblico un certo sound, quello che volevano sentire. Così ho immaginato che se potevano farlo loro – arrivare a tutta quella gente e vendere tutti quei dischi senza nemmeno sapere cosa stessero facendo – allora potevo riuscirci anch’io, solo meglio”. Sempre umile ed amabile, Dio lo benedica.

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