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“Meet the Residents”: i primi passi nell’oscurità

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I also realize… that all our lives we love illusion, neatly caught between confusion and the need to know we are alive.

Come faccio a scrivere di uno degli album più importanti della Storia senza far risultare terribilmente banali, scontate e inutili queste righe? Riuscirò in questa difficile impresa? Quello che state leggendo avrà senso di esistere? Chi conosce il misterioso collettivo di San Francisco è ben consapevole che non serve l’ennesimo articolo, trattato, saggio o qualsivoglia nome gli si dia a descrivere in modo efficace il peso che i Residents hanno avuto nel mondo musicale e culturale con la loro venuta. Ma tagliamo qui le introduzioni perché lo spazio è poco e la confusione sta già imperando nella mia mente, e proviamo a raccontare questo disco.

Alla fine degli anni sessanta alcuni ragazzi della Louisiana decidono di partire alla volta della California, più precisamente a San Francisco. Nella loro nuova casa iniziano a lavorare a un film surreale, “Vileness Fats”, che li accompagnerà per diversi anni senza però vedere mai la luce. Questi ragazzi non hanno mezzi, e probabilmente neanche delle grandi competenze tecniche, ma questo non li scoraggia e nel 1971 registrano una serie di canzoni e spediscono i nastri alla Warner Brothers. Non so cosa spossa essere accaduto nell’ufficio della Warner ma a qualcuno sarà andato sicuramente di traverso il caffè ascoltando quel delirio. I nastri vengono rimandati indietro e, dato che non era specificato il mittente sul pacco viene scritto “the residents”, i residenti.

Nel 1972, a Natale, esce un doppio 45 giri stampato in pochissime copie, si chiama “Santa Dog” e contiene quattro canzoni accreditate a quattro gruppi diversi. Il gruppo è in realtà quello dei “residenti” e Fire diverrà in futuro uno dei brani più amati dai fan della “band”. Mi rendo conto di non aver mantenuto la promessa fatta qualche riga più in alto dato che questa è ancora un’introduzione, quindi chiudiamola una volta per tutte.

“Meet the Residents”, il vero e proprio esordio della “band”, esce nell’aprile 1974, autoprodotto in modo quasi amatoriale e distribuito in pochissime copie, delle quali molte invendute. La copertina ricalca perfettamente quella di “Meet the Beatles”, ma le facce dei baronetti sono caricaturizzate e deformate. Il rimando ai Beatles continua sul retrocopertina, dove i quattro di Liverpool sono ritratti con gamberi e stelle marine al posto della testa e vengono rinominati John Crawfish, Paul McCrawfish, George Crowfish e Ringo Starfish. Non vengono nominati i membri del gruppo, né appare una loro foto, e così sarà per tutto il resto della loro carriera.

I primi suoni che sentiamo ci catapultano subito in un’atmosfera inquietante e destabilizzante. Boati e scricchiolii elettronici rompono il silenzio e introducono una voce distorta che canta il ritornello di These Boots are Made for Walking, accompagnata da un cavernoso e stonato coro, una sorta di barbershop quartet proveniente dagli inferi. Si fa strada in questa bolgia un pianoforte piuttosto malmesso che comincia a intonare uno zoppicante boogie. Inizia Numb Erone e ci spostiamo in un fumoso e acido piano bar, con un motivo che sarebbe potuto essere la perfetta colonna sonora per gli allucinati racconti di Hunter S. Thompson. In breve tempo il brano si trasforma per divenire Guylum Bardot. Sopra un valzer sabbioso irrompono i fiati e la voce, che declama una folle filastrocca.

Les Claypool deve aver ascoltato più e più volte questo album, l’influenza che ha avuto sullo stile dei Primus è lampante, e questo momento in particolare lo mostra inequivocabilmente. La cantilena termina bruscamente e al suo posto troviamo delle voci femminili, che accompagnate da un ritmo tribale si abbandonano a una languida melodia, ma la loro voce viene immediatamente travolta da bordate distorte di rumore puro, xilofoni, chitarre e feedback incontrollato prendono a cazzotti chiunque gli capiti a tiro, non c’è pace per nessuno, in particolare per l’ascoltatore, che ormai ha compreso bene l’entità del viaggio allucinante nel quale si è imbarcato.

Consuelo’s Departure calma le acque per qualche istante ma lascia comunque un filo di tensione, che viene deflagrata subito dopo con la bolgia di Smelly Tongues. Un’esplosione di magma sonoro colpisce ancora una volta il povero ascoltatore ormai inerme e si propaga senza freni in ogni dove. La chitarra martellante è più tagliente di un rasoio e il ritmo oscilla continuamente, come un respiro affannoso. Un blues primitivo ed infernale prende vita, neanche il più folle Captain Beefheart avrebbe potuto creare una tale anarchia musicale.

Fino a questo punto veniamo travolti da una valanga che continua inesorabilmente la sua discesa, inghiottendo tutto ciò che trova davanti a lei. Abbiamo ascoltato voci distorte, strumenti stuprati, marcette andate a male e ogni tipo di stregoneria musicale, ma ora si cambia registro. Per la prima volta abbiamo un attimo di respiro, questa serie di brevi e taglienti episodi viene messa a tacere dalle note di Rest Aria. La valanga si ferma, un pianoforte malandato scandisce questi minuti eterei (attenzione, stiamo comunque parlando dei Residents) e fortemente melanconici, una sonata di Satie data in pasto alla cosmica orchestra di Sun Ra. L’irruzione dello xilofono e di una serie di fiati starnazzanti porta un po’ più di dissonanza ma amplifica la solennità di questo brano, così sognante e allo stesso tempo così apocalittico.

La seconda parte del disco è ancora più sinistra e caleidoscopica. Dopo le scintille della breve Skratz arrivano quattro lunghi brani, anche se ormai il termine brano non descrive più l’entità di queste creature sonore. Sono sogni febbrili, deliri notturni, flussi di coscenza nei quali troviamo frammenti di vaudeville e ragtime (Spotted Pinto Bean), jazz-funk tribale e lisergico (Infant Tango), blues spastico con inserti natalizi (Seasoned Greetings) e primitivismo puro (N-Er-Gee – crisis Blues), il tutto smembrato e ricomposto nuovamente.

Al culmine della cacofonia tutto improvvisamente torna a tacere e un coro intona un mantra che andrà avanti fino alla fine: “go home America”. Con queste parole si conclude uno dei momenti più estremi e singolari della musica “pop”, Il primo passo del collettivo nella scena musicale lascerà un segno indelebile per molti, e negli anni successivi la loro influenza sarà enorme.

I Residents creano un mondo parallelo dove la cultura pop, la musica, il folklore diventano un blob indistinto, confuso e manipolabile secondo la loro volontà. Non si può parlare di psichedelia, proto-punk, jazz, progressive; ogni cosa perde il suo valore, la sua unicità e viene costantemente rimescolata, con uno sprito tra il naif e il Dada nel quale l’unico punto di interesse è l’espressione pura, una musica che rifiuta il musicista.

Barthes teorizzava la morte dell’Autore, i Residents la mettono in patica. L’identità del gruppo resta un mistero ancora oggi, dopo quasi cinquant’anni. E’ un’operazione sorprendente che ancora oggi resta in piedi (solo un membro, Hardy Fox, ha scoperto le carte pochi mesi prima della sua scomparsa nell’ottobre 2018) e che ribalta completamente la concezione di rockstar alla base del mondo dello spettacolo. Senza quel primo e fondamentale tassello oggi la musica sarebbe diversa, molto più di quanto si possa immaginare aggiungerei.

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