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Back In Time

“Fear of a Blank Planet”: storie di ordinaria apatia

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You’re somewhere, you’re nowhere
You don’t care
You catch the breeze
You still the leaves
So now where?”

Non posso fare a meno di pensare, mentre inizio a scrivere, al suono della tastiera del pc, al ticchettio che produco componendo le parole di questo articolo. Lo stesso ticchettio che fa da preludio a 50 minuti di rabbia, lacrime, pelle d’oca, annichilimento e esaltazione. Lo stesso suono con cui si apre uno degli album che più ha segnato la mia vita.

Dal primo arpeggio di chitarra acustica il mio corpo è attraversato da un brivido, e a ogni riff, ogni rullata, ogni accordo, ogni armonia vocale, cresce dentro di me la consapevolezza di star ascoltando un capolavoro.

Le mie orecchie da liceale non erano mai entrate a contatto con qualcosa di simile e, ripensandoci ora, raramente hanno incontrato di nuovo una tale scossa emotiva. Dentro “Fear of a Blank Planet” c’era tutto ciò di cui avevo bisogno: riff di chitarra travolgenti, incastri ritmici da manuale, morbidi tappeti di tastiere, un’alternarsi così bilanciato di morbidezza e ruvidità, di tensione e di abbandono. Ma soprattutto una grande immediatezza. Prog allo stato puro, ma senza le masturbatorie e prolisse cafonate virtuosistiche alla Dream Theater o il latte alle ginocchia dei Marillion. Steven Wilson e i suoi compagni sono riusciti a plasmare un sound complesso e stratificato ma allo stesso tempo diretto e privo di fronzoli. E’ davvero un caso atipico e forse mai eguagliato, di una musica così ricca ma allo stesso tempo così semplice e pura.

Sullen and bored the kids stay
And in this way they wish away each day
Stoned in the mall the kids play
And in this way wish away each day

Il filo conduttore dell’intero album è la vita di un teenager del ventunesimo secolo e il suo totale vuoto interiore causato da una vita alienante, dalla saturazione dei media e della tecnologia e dall’assunzione di farmaci. Niente ha più attrattiva, la noia e l’apatia assorbono ogni cosa e le giornate sono sempre uguali, nella penombra della propria camera dove, tra un videogioco e un po’ di musica sull’iPod, le ore passano e si accumulano accanto alle lenzuola sfatte e all’ipnotico schermo televisivo.

La title track, sorretta dalle chitarre distorte di Wilson e dal gommoso basso di Colin Edwin descrive accuratamente la bolla nella quale vive il protagonista. La sua stanza perennemente al buio, la tremolante luce blu della televisione che la avvolge, i pomeriggi passati a vagare come uno zombie al centro commerciale, lo stordimento provocato dalle pillole, il distacco da qualsiasi cosa. “There’s nothing left, I simply am not here”.

My Ashes è una struggente ballata pop il cui testo è una citazione (per quanto l’intero disco ne tragga ispirazione) del romanzo di Bret Easton Ells “Lunar Park”. Entriamo nei pensieri di un padre, i cui rapporti con il figlio sono totalmente corrosi, che immagina le proprie ceneri sparse sulle memorie della sua vita, mentre il piano e gli archi ci cullano fino alla fine.

Il blocco centrale dell’album è la mastodontica Anestethize, un viaggio allucinante di diciassette minuti dove si passa dal prog più “classico”, con tanto di assolo di Alex Lifeson dei Rush, al metal e all’ambient, grazie agli spumosi synth di Richard Barbieri. Ma l’intero brano è dominato dalla batteria di Gavin Harrison, che lo eleva con un tocco magistrale, una tecnica incredibile ma mai e poi mai fine a sé stessa. In questo marasma le parole di Wilson ci portano nella mente del protagonista, assuefatto alle droghe e inesorabilmente sprofondato in un limbo di tedio e vacuità dal quale, purtroppo, non c’è via d’uscita.

La seconda parte del disco assume toni ancora più pessimistici, la disperazione prende il posto della noia, nelle eteree Sentimental e Way out of Here matura il totale struggimento nei confronti della vita, sociale e sentimentale, e il desiderio di farla finita definitivamente, che si concretizza nella conclusiva e lancinante Sleep Together come un interruttore con cui spegnersi, una vile fuga da un mondo che è sempre stato estraneo.

Let’s sleep together right now
Relieve the pressure somehow
Switch off the future right now
Let’s sleep forever

Termina così questo disco, la miglior creatura della band inglese, ora più che mai in stato di grazia, un piccolo miracolo nell’oceano musicale (non più) odierno, progressive rock che si spoglia di ogni futile manierismo per ottenere una voce così incredibilmente vera e personale.

Negli anni a venire Steven Wilson realizzerà da solista alcuni ottimi (e in certi casi sublimi) album, ma non riuscirà più ad eguagliare l’impatto e la bellezza di “Fear of a Blank Planet”.

Ogni volta che mi ritrovo ad ascoltare questo disco mi rendo conto di quanto i Porcupine Tree siano stati importanti per me, e di come mi abbiano accompagnato e confortato nel corso degli anni. Dall’irrompere delle prime note mi ritrovo nuovamente a camminare in strada, tornando da scuola, con le cuffie nelle orecchie e la testa chissà dove, oppure a casa di un amico a mimare insieme a lui i fill di batteria, abbandonandomi totalmente in una momentanea, meravigliosa estasi.

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