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“Check Your Head”, l’incombere incontrastato dei Beastie Boys

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Fa differenza, il fisico. Perché fa differenza l’età. Almeno durante gli anni della nostra adolescenza. Me ne accorsi nel 1992, pochi mesi dopo l’uscita di “Check Your Head”, il terzo disco della band newyorchese denominata Beastie Boys ed il primo, in ordine cronologico, per i loro anni ’90. Fu anche il primo nel quale i Beastie Boys vi registrarono direttamente ogni strumento. “Check Your Head”, appunto perché arrivò agli inizi degli anni ’90, non fu un disco né hip hop né punk.

Fu un disco di prova, dove vennero sperimentati quegli accorgimenti e creati quei mantra, “Funky Boss” su tutti, che li avrebbero accompagnati in tutta la loro futura produzione. Impossibile, al suo interno, trovare il pezzo più significativo o la canzone destinata ad entrare nella testa di chi li ascoltasse per la prima volta o meglio ancora nelle classifiche mondiali: “Check Your Head” è un disco mestatore e fatalista. Se Stand Together e Pass The Mic sono i brani più strettamente Hip Hop al suo interno, essi non riescono a predominare totalmente sugli altri settori musicali del disco. Come allo stesso modo le strumentali Lighten Up e Groove Holmes non sono i punti focali, grazie alle loro sperimentazioni, della ricerca dei tre newyorchesi di quegli anni: Pow, che ne completa il trittico, arriva dalla cultura cinematografica e teatrale che per loro è sempre un punto di partenza verso ogni celebre ridondanza sonora.

Noi, intanto, eravamo in tredici, quell’estate. Dai dieci ai diciotto anni. Decidemmo di organizzare un torneo di tennis. In paese c’era un solo campo, era posizionato al limitare a valle del centro abitato e sorgeva su un’isola che sorgeva, a mo’ di cuspide, all’esatta confluenza dei due torrenti principali della valle, che si incontravano proprio lì. Da millenni, probabilmente. Uno dei due era praticamente ridotto ad un rigagnolo. “Quando il Charlie fa la pipì, ne fa di più del Troncone”, diceva mio padre, riferendosi alla misera portata del corso d’acqua. Charlie era il cane.

Affittavamo il campo di cemento rosso e verde sbiadito per intere giornate, ci dividevamo in gironi da quattro, mettevamo giù un calendario al bar bevendo spuma e tè e alla pesca, noi più piccoli, e lasciavamo bere birra e gazzosa ai più grandi, che lo facevano di nascosto, appoggiando i bicchieri polverosi e umidi dietro ai videogames e al jukebox del bar per non farsi scoprire dai passanti, paurosi. Lasciavamo le carte dei ghiaccioli impregnate di zucchero nei posaceneri di plastica neri, era una cosa che mi disgustava e dispiaceva fare, ma la facevo ugualmente. Una volta organizzati i gironi sorteggiando tra le cosiddette teste di serie, delineate da precedenti risultati e partecipazioni, stendevamo il calendario: tre incontri alla mattina e sei al pomeriggio, dalle due e mezza alle sette.

Nell’estate del 1992 ero tra i più piccoli, a partecipare al torneo. Era fine luglio e le giornate si stavano già accorciando sensibilmente, rispetto a quelle di giugno. Verso le sei del pomeriggio, infatti, il sole iniziava a trincerarsi dietro le guglie più alte di quella sezione di Alpi Pennine, creando volti e forme animaleschi e risibili, tra i boschi di larici e betulle che arrivavano sino alle prime case del paese e sino agli ultimi tornanti di quelle strade così scoscese e malmesse, che portavano alle frazioni più lontane della comunità. Giocavamo fino a quando l’aria fresca, che spirava da lassù, non si confondeva coi rintocchi, provenienti dal campanile grigio del paese, che informavano i suoi abitanti dell’avvicinarsi dell’ora di cena. Eravamo in tredici perché all’ultimo si aggiunse Alessandro, il cugino di uno dei miei amici, che veniva dalla città e giocava già a tennis tutto l’anno. Come se non bastasse, aveva già diciassette anni. Sapeva ogni risultato maturato nell’anno in corso, sapeva che Jimmy Courier avesse battuto Korda al Roland Garros e conosceva Conchita Martìnez. Era imbattibile ed era il doppio di me, di stazza. Io, lo ammetto, ero al di sotto della media per quelli della mia età, ma lui mi sembrava gigantesco. Ascoltava anche un sacco di musica e diceva anche di avere tanto tempo per farlo, durante una giornata. Ascoltava anche i Beastie Boys, ne possedeva una maglietta strana, bianca e nera, che si cambiava prima di iniziare ogni partita del nostro torneo. Seppi che si trattava di un gruppo musicale perché ne parlava, anche, dei Beastie Boys. Diceva che venissero da New York e si vestivano larghi. Che erano dei musicisti veri e propri, mica come i componenti dei gruppi locali che facevano solo pezzi di altri gruppi o altri cantautori che suonavano alla sagra del paese, in agosto. Aveva gli occhiali rotondi e non beveva birra. In compenso, sembrava stesse sempre masticando qualcosa. Noccioline, tipo. Era americano, nato a Milano ma americano. Non conoscevo nulla della sua musica, al jukebox sceglieva sempre i Duran Duran o i Litfiba, se lui era Courier io ero un Andrea Gaudenzi di belle speranze.

Gli presi quasi un set, il secondo, perdetti 6-4; mentre per quanto riguardasse il primo non ci fu storia, 6-0. Dopo avermi battuto, si tolse la maglietta bianca e azzurra che usava per giocare le sue partite e si rimise quella dei Beastie Boys, che erano appena riusciti a suonare un disco in cui i preludi per successi come Sabotage si facevano già immaginare: Gratitude ne è stata il trampolino di lancio, una palestra dove il passaggio tra l’hardcore e il rap si faceva avvertire in maniera viscerale. “Sick of Black Flag, sick of Cro-Mags”, insomma, citando i Ceremony, anche se in brani come Something’s Got To give il sottofondo culturale legato alla rivolta punk si avverte tangibilmente. “I wish for peace between the races. Someday we shall all be one. Why fight yourself? This one’s called Rectify”

Il mio avversario, il giorno dopo Alessandro, era anch’egli più grande di me. Non ricordo distintamente se fosse addirittura più grande di Alessandro. Mi trattava con albagìa, non ci ero mai andato d’accordo. Lo battei abbastanza facilmente, gli volli chiedere cosa ne pensasse dei Beastie Boys, anche se non avevo la minima idea di cosa controbattere nel caso li conoscesse anche lui e fossimo arrivati a parlarne profondamente. Ci avevo pensato tutta la sera, a loro, ma non ero riuscito a trovare alcuna informazione. Non avevamo nemmeno il telefono, in quella casa di montagna. Avrei dovuto aspettare forse anni, per capirne qualcosa. Li tralasciai quindi per alcuni anni, ripromettendomi di cercarli appena ne avessi avuto la possibilità, ascoltando le radio e cercando i loro dischi, registrando i video che passavano su MTV ad orari inaccessibili, per un ragazzetto delle medie. Quando finalmente riuscii ad avere tra le mani “Ill Communication”, il loro disco sicuramente più conosciuto ed acclamato, non mi distaccai mai più da loro. Ascoltavo già praticamente solo punk rock e hardcore e rivivere, in un certo modo, “Check Your Head”, incominciò ad essere esso stesso un mantra: i Beastie Boys non divennero un ascolto stocastico, come hanno potuto esserlo svariate altre brand dell’ambiente punk, ma assunsero, da quel momento, un ruolo predominante nella mia formazione.

“Di fronte a certi uomini il filosofo si duole che i pensatori siano fatti di sostanza deperibile, e l’artista che questa sostanza deperibile sia costretta a pensare”, asseriva verso la fine dell’800 Thomas Hardy, romanziere naturalista inglese. È tutta una questione di fisico, quindi. Anche l’incombere incontrastato di “Check Your Head” nel panorama musicale degli anni ’90: arrivò come un uragano a sfoltire le cerchia di chi ascoltava punk, portando i loro ascolti verso sonorità più elettrificate e cauterizzanti. Dove le tastiere, da sempre oggetto delle più aspre contumelie da parte dei cosiddetti “puristi”, la fanno da padrone e i campionamenti, settati dai migliori artefici americani del momento, sono la linfa vitale di ogni singolo brano. 

Bisogna avere il fisico per essere dei fatalisti mestatori, e io non ce l’ho ancora. 

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