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“Parklife” dei Blur, la storia infinita

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Nel mondo della musica esiste una grande verità. Una verità non assoluta, ma che non ha mai trovato smentite: la nascita di un genere è sempre diretta conseguenza di un progetto culturale. Quando il fervore sociale porta alla nascita spontanea di nuovi modi di esprimersi, è lì che nella musica inizia il divertimento. Alcuni movimenti sono frutto del relativo periodo storico, generano fiammelle flebili che durano una stagione; altri deflagrano in modo talmente dirompente da continuare a produrre effetti anche a distanza di decenni. Mettetevi comodi, perché è di un prodotto di questa seconda categoria che sto per parlarvi.

C’è stato un tempo in cui il caro vecchio Regno Unito ha vissuto il dualismo tra Londra e Liverpool, i due unici centri in grado di generare cultura. La swinging London contro la patria dei Beatles e derivati: i sudditi di Sua Maestà sono andati avanti così più o meno dal dopoguerra fino alla metà degli anni ’70. Ad un certo punto, però, il pentolone antropologico inizia a bollire: crisi petrolifera, stagioni di austerità forzata, un sistema economico – basato sui vecchi canoni della rivoluzione industriale – che si stava pian piano sgretolando sotto gli scarponi da lavoro della british working class. Uno dei centri industriali più importanti – e culturalmente meno rilevanti fino a quel momento – è Manchester, un paesone di mezzo milione di abitanti che tutto ad un tratto si sentono privati delle loro solide certezze basate su casa, lavoro in fabbrica e calcio. Il pentolone sta per esplodere, ha bisogno di un’ultima scintilla, che scocca una sera di giugno del 1976.  

Alcuni componenti dei Buzzcocks, un gruppo rock locale senza idee particolarmente originali, organizza un concerto in un locale chiamato Lesser Free Trade Hall. Cercano in giro qualche band in grado di portare lì un po’ di gente e alla fine si imbattono nei giovani – e pressoché sconosciuti – Sex Pistols. Non sarà un gran successo di pubblico, perché in tutto arriveranno circa 50 persone, ma ciò che i Buzzcocks e i Sex Pistols nemmeno s’immaginano è che quella sera scriveranno una pagina fondamentale della storia della musica. In mezzo a quella cinquantina di intrepidi ci sono infatti Peter Hook dei Joy Division, il leader degli Smiths Morrissey, ma soprattutto Tony Wilson, che tornando a casa decide di fondare la Factory Records e di aprire l’Hacienda, un locale in cui dare libero sfogo alle band emergenti. Per chi non lo avesse ancora capito, quella notte a Manchester era nato il punk, o almeno il suo ramo britannico, le cui brevi ed esplosive sonorità diventeranno in breve tempo la colonna sonora ufficiale del malcontento operaio.

(Photo by Paul Welsh/Redferns)

Con il passare degli anni, quella forma artistica occupa spazi espressivi via via diversi. Gli straccioni Sex Pistols scuriscono nelle tinte dark dei gotici Chamelons, si rinvigoriscono nel desiderio di ballare dei New Order e infine si scoprono amanti delle contaminazioni tra più generi con gli Inspiral Carpets e gli Happy Mondays. Siamo ormai a fine anni ’80, e ciò che un tempo era definito punk, oggi si chiama (malignamente) Madchester.

Proprio nei mesi in cui gli Stone Roses – con il loro primo e omonimo album – toccano una delle vette più alte del Madchester – la lunga cavalcata mancuniana sembra accusare una battuta d’arresto importante: nell’estate del 1989, una ragazza di sedici anni muore nell’Hacienda – il locale di Tony Wilson che già da tempo godeva del poco lusinghiero vezzeggiativo “Hallucienda” – colpita da arresto cardiaco causato da una reazione allergica all’ecstasy. Il locale chiude, nel giro di poco tempo la Factory Records fallisce: tutto lascia presagire che quella sia la fine della storia. Ma quando la stella di Manchester sembra eclissarsi irreversibilmente, nuova luce arriva da Londra.

L’onda lunga del Madchester ha infatti generato un nuovo movimento culturale di base nella capitale, portato avanti da ragazzi non meno arrabbiati – a causa stavolta delle controverse politiche thatcheriane – e che in comune con i coetanei del north-east ha il modo di pensare, di approcciare alle cose ma soprattutto di vestirsi. Pochi orpelli, abiti oversize e scarpe vistose, in una sola parola: baggy.

In quegli anni, i giovani Damon Albarn e Graham Coxon – amici d’infanzia – frequentano i corsi al Goldsmith College di Londra. Damon canta e suona diversi strumenti (chitarra, pianoforte, basso e ukulele), mentre Graham è fedele alle sei corde. Mandano avanti una band, i Circus, che si avvale della collaborazione di diversi volenterosi colleghi universitari. Poi i due cambiano il nome del gruppo in Seymour,contestualmente all’inizio dell’amicizia con il bassista Alex James e il batterista Dave Rowntree. Nel corso del 1989 i quattro iniziano ad esibirsi stabilmente: vengono notati da Andy Ross della Food Records, che li ingaggia a patto che cambino nome alla band. Dopo una serie di proposte da parte dei discografici, la scelta ricade su Blur, dal nome di un effetto che in grafica genera lo sfocamento. Pur bravi, i ragazzi sono quattro leader: iniziano a lavorare al loro primo album ma i rapporti interpersonali non decollano. Così entra in scena Stephen Street, produttore degli Smiths e dei Cranberries: la musica dei Blur inizia a suonare in modo diverso.

In un primo momento, i Blur si pongono musicalmente in una sorta di tardo Madchester. Il genere vendeva ancora tanto e in effetti il riscontro è immediato: Sing, uno dei brani estratti dal primo album “Leisure”, viene inserito nella colonna sonora di Trainspotting. Con “Modern life is rubbish” avviene la prima svolta: dopo un lungo tour negli Stati Uniti, Albarn e i suoi realizzano che se vogliono raggiungere il successo internazionale devono cambiare rotta. Non abbandonare del tutto il british style, solo depurarlo di quella cupa psichedelia che non ha presa negli States. Per molti, quello è il punto di partenza per la costruzione di un vero e proprio marchio di fabbrica, in grado di imporsi rapidamente a livello mondiale. “Modern life is rubbish” è il grembo che darà alla luce il britpop.

Visto il successo dei primi due album, i discografici alzano la posta. L’obiettivo del nuovo disco non è puntare alla leadership in UK, bensì dare una risposta definitiva al grunge di provenienza americana. Durante la scrittura dei nuovi pezzi, ai Blur torna così in mente l’ultimo, infinito tour nel nuovo continente. In quei mesi hanno colto vizi e virtù dei cugini yankees, soprattutto hanno avuto modo di cogliere l’influenza che ha in Europa il loro stile di vita. Sono quindi in grado di passare all’azione, con un’opera che finga di raccontare malessere, ma che in realtà rappresenta una colossale – e riuscitissima – presa in giro del popolo a stelle e strisce. Quell’opera si chiama “Parklife”, ed esce il 25 aprile del 1994.

“Parklife” è universamente riconosciuto come uno dei tre vertici dell’essenziale triangolo britpop insieme a “(What’s the story) Morning glory?” e “Different Class“, entrambi usciti l’anno successivo. Gli Oasis realizzeranno un’opera intimista, un bel sospiro appagato dopo lo sfogo urlato in “Definitely maybe” (1994), mentre i più longevi Pulp avranno finalmente l’occasione di raccontare l’amore e il sesso dalla prospettiva degli emarginati. I Blur, dal canto loro, danno vita a un concept politico-esistenziale in stile Kinks, che in termini musicali è un viaggio nel tempo diviso in decadi.

Partiamo dai singoli. Girls & boys, un morbido e inconfondibile mid-tempo, è il classico pezzone in grado di identificare la band in eterno. In rapida successione arrivano forti e chiari gli echi del Regno che fu nei lussureggianti sixties in To the end, Parklife e End of a century. Nel video della title track, oltre alla parlata cockney dell’attore Phil Daniels (il Jimmy di Quadrophenia), c’è anche un omaggio alla copertina di Abbey Road, con quattro ragazzi che attraversano sulle strisce mentre Phil e il suo assistente Damon girano in macchina per lavoro. Agli albori della musica post boom economico si piazzano anche Tracy Jacks, The debt collector e Far out.

Con un balzo in avanti nel tempo, i Blur piazzano una serie impressionante di citazioni agli anni ruggenti del punk. Jubilee e Bank holiday sembrano estratti dal concerto al Lesser Free Trade Hall, ammesso che qualcuno abbia avuto il coraggio di registrare qualcosa quella notte. La storia si ripete, così il punk diventa dark-gothic in Toruble in the message centre e poi dance in London loves e Magic America. Ancora un salto in avanti, ed eccoci negli anni ’80, il decennio in cui nelle teste di Damon e Graham è iniziata a circolare l’idea di formare una band: la melodia synth di Badhead si alterna con Clover over Dover, un omaggio agli Smiths di Morrissey. Prima di chiudere con la divertente Lot 105 – intitolata come il lotto con il quale la band si aggiudicò l’Hammond protagonista del pezzo – i Blur salutano tutti e dettano gli standard sonori del futuro con This is a low.

E se qualcuno crede che la storia finisca con il britpop, ovviamente, si sbaglia di grosso. Al massimo è concesso pensare che la storia ricominci daccapo, perché se al punk segue il post-punk, dalla fine degli anni ’90 è già di moda il post-britpop. I Pulp, a meno di una breve parentesi nel 2011, si scioglieranno nel 2002, mentre il rapporto tra i Gallagher inizierà a scricchiolare e si chiuderà del tutto nel 2009.

I Blur andranno avanti ancora per molto (sono ufficialmente ancora insieme nonostante l’ultimo disco risalga al 2015), ma parallelamente alla band portano avanti progetti solisti (Albarn e Coxon), la rivoluzionaria idea della non-band Gorillaz e il sound immediato e orecchiabile dei The good, the bad and the queen, un supergruppo che Damon condivide con Paul Simonon dei Clash al basso, Simon Tong dei Verve alla chitarra e Tony Allen alla batteria. In altri termini, Albarn si incontra e suona con un reduce della golden age of punk, con un’icona del britpop “posteriore” e con uno dei (tanti) compagni di merende di Fela Kuti: really not bad!

Anche se maggiormente assorbita ai canoni d’oltreoceano, ai Blur e al britpop si ispirano in modo chiaro le successive generazioni di band, dai Verve ai Radiohead, dai Travis agli Stereophonics, fino ai Coldplay, ai Killers, ai Kaiser Chiefs e agli Artic Monkeys. C’è ancora qualcuno che pensa che la storia sia finita qui? Ingenui…

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