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Fiona Apple – Fetch The Bolt Cutters

2020 - Epic
songwriting / trip hop / sperimentale

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Tracklist

1. I Want You To Love Me
2. Shameika
3. Fetch The Bolt Cutters
4. Under The Table
5. Relay
6. Rack Of His
7. Newspaper
8. Ladies
9. Heavy Balloon
10. Cosmonauts
11. For Her
12. Drumset
13. On I Go


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Quando mio zio mi chiede se abbia visto o no un film, lo scambio avviene di solito in questi termini:

– L’hai mai visto [Titolo film]?

– Eh, purtroppo no…

– Che culo che c’hai…

Una maniera come un’altra per sottolineare la fortuna della prima visione vissuta come un’esperienza inedita, con tutto il suo carico di emozioni che, a vario titolo, possono rendere il tutto indimenticabile. L’aneddoto mi offre lo spunto per fare outing: non avevo mai ascoltato un disco di Fiona Apple prima di questo, almeno non per intero. Pur essendomi fiondato abbastanza presto sul nuovo album senza attendere l’onda lunga del fattore C, le insistenti voci che gridavano al miracolo e all’apparizione mariana mi hanno ovviamente raggiunto: I fought the hype and the hype won. Ma, per una volta, va dato a Cesare quel che è di Cesare. E quindi sì, mi unisco al coro (spoiler alert): questo disco è importante, e molto.

La voce. Le parti vocali sono state in larga parte (se non completamente) lasciate prive di editing. Oltre ad essere un lusso che ben pochi si possono permettere, è una scelta semantica e comunicativa precisa, e rimanda direttamente a quanto dichiarato dalla Apple:

The cool thing is this whole album, for me, has turned into the headache that I had inside of my head and now that it’s released, it’s like this pulse that now we can all share.

Questo pulse, questo battito, è evidente in tutto l’album. Lo pervade, è una vibrazione che lo percorre, è nelle corde vocali grattugiate e mai messe a così dura prova dalla Apple, che si lancia in ruggiti e lunghi bordoni a perdifiato, per spingersi volutamente ai limiti. Ed è tutto spiattellato già dal primo pezzo, I Want You To Love Me. Non c’è teaser che solletichi gli appetiti, o punch line da aspettare: è tutto già sotto gli occhi, al sole della casa in California dove buona parte di questo disco è stato registrato. Una scelta che sarebbe suicida per molti e in tanti dischi, ma che qui diventa concettuale e funzionale all’idea di fondo di tutto il lavoro: la liberazione. Dai vincoli che ci attanagliano, dai pensieri che abbiamo taciuto o autocensurato, dalle restrizioni eterodirette. In questo senso, ogni brano è un mondo a sé che, lungi dal rendere l’album una collezione di singoli, rende ciascuno di essi anello di una catena simbolica che va in frantumi man mano che si prosegue nell’ascolto: si decostruisce la mera sequenza di pezzi per costruire invece una stringa di significato che informa il disco, non troppo dissimilmente a ciò che accade (senza voler portare alcun paragone diretto) in “The Dark Side Of The Moon” rispetto ai suoi brani, tasselli simbolici della riflessione su tempo e morte.

L’esperienza alla base del pulse cui fa riferimento la Apple è un periodo di meditazione nel biennio 2010-2011 realizzato dall’autrice in California. I versi che seguono ne sono un riferimento diretto: “And I know when I go all my particles disband and disperse / and I’ll be back in the pulse”. Qui la Apple si riferisce a una sorta di illuminazione esperita mentre era vittima di un mal di testa feroce durante il ritiro. La liberazione, ancora, da questo giogo ha portato al rilascio di questo battito che è stato poi condiviso da tutti nel ritiro, e che è stato poi convogliato nell’album in questione. L’artista, nella schiettezza che la contraddistingue, ha descritto l’evento niente meno che come “the biggest thing that’s ever happened to me in my life.” Che tutta la questione spirituale sia per noi pertinente o meno poco importa; ciò che è affascinante è come tutto questo abbia portato a un disco che, senza tema di esagerare, ha davvero qualcosa in più.

Shameika parla di un’agnizione. Di una persona che, probabilmente, dovremmo ringraziare a vita per essere stata una delle prime a dire a Fiona che lei “had potential”. È la realizzazione del fatto che spesso siamo noi a imporci da soli dei limiti, a chiuderci nelle gabbie: siamo i peggiori nemici di noi stessi. La Apple rimarca il momento battendo sul piano e mettendo il chorus sotto i riflettori, come a dire “Ehi, attenti, che arriva il clou, la questione che mi interessa”. Ed è un pezzo che parla di pregiudizio e del predominio dell’estetica sull’oggettività e sulla conoscenza. Sempre determinante, che sia per il bene o per il male. Un pregiudizio, infatti, che per un pelo salva lei e la sua band dalla detenzione per possesso di hashish. “The good man in the storm”, citando il bassista, Sebastian Steinberg, quando la pianista salva l’equipaggio nascondendosela addosso, in un calzino. Tanto la polizia non sospetterebbe mai della ragazza acqua e sapone. Paradossale come il sessismo possa essere salvifico, in certe situazioni. Non stupisce che l’album sia assurto a riferimento per il movimento #metoo. 

La traccia che dà il titolo all’album ha probabilmente fatto più rumore per un fatto contingente e pittoresco che non va molto al di là del folklore, anche se è calzante: i guaiti dei cani della Apple e di Cara Delevingne, amica di penna della musicista e qui in veste di corista. Il brano è forse uno dei meno esuberanti del lotto; è, anzi, molto intimista, casalingo e sobrio, e forse un necessario respiro dopo lo sconquassamento iniziale.

Il testo è un romanzo di formazione in miniatura. Anche qui si trovano dei versi piuttosto in sintonia con l’attualità e con il rumore di fondo della sovraesposizione mediatica: “the noise that people make when they don’t know shit”, opportuna nota a margine sui leoni da tastiera, se si vuole, o “And you maim when you’re on offense but you kill when you’re on defense”, rimuginando sui complessi di inferiorità.

Under The Table è il pezzo che più di tutti potrebbe rientrare nei canoni del singolo, ma con un twist prima dell’ultimo chorus che sembra quasi voler sabotare il pezzo, portandolo meravigliosamente a deragliare, con il piano preso a calci a voler rimarcare quel “Kick me under the table all you want, I won’t shut up, I won’t shut up”, che è diventato un biglietto da visita per l’album tutto, semplificando forse un po’ troppo le cose. Mi son comunque scoperto a canticchiare mentalmente la frase ancor prima del secondo ascolto del disco, quindi il potenziale da hit direi che è confermato.

Relay oscilla fra cantilena infantile, quasi da scherno, a gospel sbilenco: si basa quasi esclusivamente sull’effetto percussivo ottenuto da strumenti rimediati così come dalla voce, dal basso, dai cori. E per di più con un testo ispirato, con almeno una frase chiave: “But I know if I hate you for hating me, I will have entered the endless race”. Anche nella macedonia di amenità che è la discografia della Apple non esiste un brano così, è unico. Ed è anche il colpo di reni dell’album, che ridà slancio all’ascolto, come se il disco iniziasse di nuovo da qui. Meraviglioso.

E poi Rack Of His e Newspaper, ancora con la ritmica “trovata”, l’eco della voce della Apple (e della sorella, Maude Maggart) che rientra, la casa che parla. In Heavy Balloon appare il tema della depressione, evocata dalla selva intricata di ritmi e controcanti che imperversano nel brano, un soul nevrotico che piacerebbe a Neneh Cherry, nel quale pian piano la Apple emerge, infestante e rampicante come piante di fragole e fagioli. Cosmonauts inizia come una ballata innocua per poi cambiare completamente faccia e cadere sotto i colpi di “start” della musicista, in un finale alla Radiohead, rumorista ed esasperato.

Un’altra citazione dall’album che va molto per la maggiore è “Good morning, You raped me in the same bed your daughter was born in”, e per ovvi motivi. È stata scritta come reazione alla nomina di Brett Kanavaugh a giudice associato della Corte Suprema, nonostante le ripetute accuse di molestia sessuale che lo vedono coinvolto. Ma il brano For Her è principalmente dedicato a un’amica della Apple, vittima di abuso da parte del suo capo durante uno stage in una compagnia di produzione cinematografica. “Good morning” è peraltro una citazione del brano omonimo nel musical “Singin’ In The Rain”, per culmine di straniamento. E affronta uno dei primi scogli da affrontare in queste situazioni: il superamento della vergogna e il riconoscimento della realtà dei fatti. Di nuovo, torna il leit motiv della liberazione da blocchi psicologici che arrivano da molto lontano e che sono i primi macigni di subconscio da abbattere per un approccio non mediato e diretto con la realtà, e per affermare la propria identità. Non è un caso che la musicista abbia suonato e registrato questo pezzo totalmente in solitaria, a rimarcare la natura personale e confidenziale dell’argomento.

A chiudere il cerchio, anche simbolicamente, ci pensa On I Go, ispirata a un mantra vipassanā intonato durante l’incarcerazione per possesso di marijuana (in un episodio diverso da quello menzionato per il pezzo Shameika, nda). E l’album finisce come era cominciato: ex abrupto, con le stesse, brutali sincerità e sfrontatezza con le quali è stato concepito e registrato.

Sul sito aggregatore Metacritic, l’album detiene il record come unico album di inediti ad aver ottenuto il punteggio 100 nella storia del sito, e con una media di 8.9 su 10, in base a 611 valutazioni da parte degli utenti del portale. Se un sano scetticismo è sempre il benvenuto di fronte a tali incensazioni bulgare, un consenso così generale non può neanche lasciare indifferenti. Soprattutto nei confronti di un’artista che sforna un disco ogni due lustri o quasi (un fondo perduto, di questi tempi), e con alle spalle una carriera già impegnativa, in termini di accoglienza e approvazione. Peraltro, l’attesa accresce le aspettative, rendendo un eventuale passo falso ancora più rovinoso; d’altronde, nessuno ha graziato David Lynch per il buco nell’acqua di “Inland Empire”, tanto per citare un altro supposto intoccabile.

Insomma, le sto cercando tutte per trovare delle attenuanti, dei difettucci, dei “se”, “però”, “ma” che possano giustificare un mugugno, uno storcere il naso. Mi sto sottoponendo da solo a una peer review. Ma niente, non ci riesco. “Fetch The Bolt Cutters” è un disco non semplice, che richiede più ascolti, va meditato, metabolizzato, compreso. Richiede una collaborazione attiva, una partecipazione emotiva da parte dell’ascoltatore. Non va bene per l’aperitivo, per addormentarsi, per rilassarsi, per meditare, per fomentarsi, per farsi la doccia, per andare al bagno, per cucinare, per fare l’amore. Semplicemente, per citare una raccolta di poesie di Erich Fried che mi venne regalata, “è quel che è”. E ditemi voi se è poco.

I am, you are, the listener is. Everybody is. It’s sort of “Fetch your tool of liberation. Set yourself free.

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