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“Bricks Are Heavy”, fotografia del momento di grazia delle L7

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La primavera del 1992 è stata fantastica, quando aprile arrivò tutti sapevano cosa fare, e tutto sarebbe stato fatto come doveva essere fatto. Quando venne aprile, il cielo si aprì, sentimmo una musica celestiale e tutti fummo più felici. Fuck Yeah!!!

Nate nel 1985 dall’incontro di Donita Sparks e Suzi Gardner, le L7 trovano la quadra verso la fine del 1987, con l’entrata nella band della batterista Dee Plakas, che va a completare la sezione ritmica nella quale già c’era Jennifer Finch, bassista. La line-up della band californiana è ora quella che le condurrà al picco massimo della loro carriera, il terzo album del quale ci occupiamo oggi: “Bricks Are Heavy”.

Il disco è prodotto da Butch Vig e la sua impronta, ovviamente, è chiara: i suoi sforzi sono diretti a fare in modo che le L7 si allineino allo stile musicale che in quel preciso momento è quello che sconvolgerà il mercato, uscendo dalla foresta dell’alternativa. Non vuole essere una notazione negativa; nel 1992 le L7 erano già quello che erano, dopo aver passato anni in stretta comunanza con quelli che sarebbero stati i migliori. Non è una deviazione dall’ortodossia della musica low-fi per diventare più commerciali, ma è crescere cercando il proprio posto nell’universo. In effetti, per spiegare “Bricks are Heavy” è sufficiente osservare il percorso che le quattro iniziano nel 1989: primo, le amicizie della bassista Jennifer Finch permettono alle L7 di arrivare a Brett Gurevitz (!), che con la sua Epitaph Records registra il loro primo album. Secondo, il buon lavoro fatto e i tour instancabili, caratterizzati da sfrontatezza, umorismo, suoni ruvidi e potenti le porta a spostarsi verso il cuore pulsante della musica di quegli anni, e cioè a Seattle (!).

Nel 1990, Seattle era il luogo dove tutti quelli che volevano contare nella musica alt dovevano essere e loro c’erano, e in particolare erano alla Sub Pop: terzo, “Smell the Magic” viene prodotto da Jack Endino (!) e piace a tal punto da farle finire direttamente nelle braccia di una major. Il cancello del paradiso è finalmente aperto e ora non resta che entrarci in maniera trionfale. Quarto, passano il 1991 a fare concerti e a creare il Rock for Choice per la raccolta di fondi a favore del diritto all’aborto dividendo il palco con Nirvana, Mudhoney, Hole, X. Quindi, capite bene che finire nelle mani di Butch Vig nel 1992 non era altro che la conseguenza ultima di tutti i passaggi fatti in precedenza, il passo che mancava per definire completo il loro percorso di crescita. Giova ricordare che Vig tra il 1991 e 1992 produce tra gli altri Dirty dei Sonic Youth e l’omonimo degli House of Pain, Nevermind (indovinate di chi è…), Gish degli Smashing Pumpkins e 8-Way Santa dei TAD…

In quel 1992, succede che le ragazze si ritrovano in mano la palla per vincere partita e campionato; hanno una major dietro le spalle, uno dei migliori produttori al loro servizio e la giusta esperienza per fare le cose al meglio. Purtroppo, il tiro non è preciso; decidono di seguire la via di una composizione semplice e, che sia per paura di essere giudicate non all’altezza, di fare musica da femmine o perché semplicemente non ne hanno il talento, il risultato è che quando si tratta di elevare il livello, vanno in difficoltà. Probabilmente è ingiusto paragonare le L7 a band di caratura maggiore, ma in fondo il confronto è il metro di giudizio di tutta la nostra vita e non possiamo non notare che l’associazione con i migliori è solo superficiale e il loro post punk ossessivo fatica ad avvicinarsi alla complessità di altri.

La band si stabilizza in un rumore rock statico e ripetitivo che segue un canovaccio standard e tipico, ma povero. Da un punto di vista musicale gli undici pezzi del disco rimangono incastrati in una terra di mezzo a metà strada tra hard rock e heavy metal, una musica fatta da punk che suonano hard rock. Notate come basso e chitarra ritmica non offrono mai una contro melodia che potrebbe arricchire il brano, suonano pesanti e veloci, come hanno sempre fatto, nulla di più. Potrebbe essere che alla band manchi un cantante migliore, qualcuno che sappia usare la voce come un grimaldello che aiuti ad aprire l’anima dell’ascoltatore (cfr. Vedder o Cobain); spesso la voce si limita a un copione che non corre rischi, non cerca il salto di qualità. Di certo dovrebbero lavorare di più sui testi che tendono a essere superficiali, senza riuscire a smuovere sentimenti profondi: raccontano di avventure sessuali accennate e di ragazze che cadono durante concerti. Le posizioni politiche sembrano più che altro atteggiamenti e la disillusione si riferisce a fatti non personali, ma esterni e questo impoverisce il messaggio perché lo banalizza, lo rende piatto. Invettive brutali, diventano un giudizio superficiale e quindi volatile, leggero, con poco significato.

Tra l’altro, la mancanza di profondità non sarebbe un problema se non fosse che nelle dichiarazioni loro stesse ammettono di voler essere qualcosa di più di un semplice momento di divertimento. Detto questo, il fatto di non essere tra le prime dieci migliori band del decennio non fa di loro le peggiori della storia della musica! Appartengono alla classe media, buone comprimarie che hanno mostrato sprazzi di ottimo livello, un esempio su tutti è Pretend We’re Dead, che con quattro semplici accordi e un testo a filastrocca è diventata un inno ancora apprezzabile. Il resto dei brani spazia tra episodi grunge (Monster) e metal (Slide) caratterizzati da una piacevole energia (Mr. Integrity e This Ain’t Pleasure) e cavalcate rauche (Slide). Da sottolineare in Wargasm il sample di un urlo di Yoko Ono, che non solo concesse loro il permesso, ma tenne le dita incrociate per il successo dell’album.

In definitiva, “Bricks Are Heavy” è un album che fotografa un momento di grazia, non solo delle L7, ma in generale quello di tutto un movimento che segna in maniera profonda il decennio dei ’90 e pur con con tutti i suoi limiti, è la summa delle esperienze della band sui palchi USA, delle loro performance artistiche, delle lotte per essere accettate come musicisti in quanto band femminile, della politica del DIY tipica dei movimenti punk.

È finalmente il biglietto di accesso a un mondo nel quale le donne non sono mai state benvolute ed è la vittoria di quelle che non è necessario avere le palle se hai un clit* abbastanza grosso.

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