Impatto Sonoro
Menu

Classifiche

BUON VECCHIO NU: i 30 migliori dischi nu metal di sempre

C’è stato un momento, circa a metà anni ’90, in cui il forte respiro del crossover stava gonfiando i polmoni di un pubblico affamato e al contempo stanco. Stanco di tutte quelle proposte giurassiche ed ormai sorpassate, proposte che non riuscivano più a soddisfare quel bisogno di espettorare il proprio malcontento, o anche solo di esprimere la propria natura mutante. Da qui la fame, i morsi allo stomaco della curiosità, un sentimento quasi alchemico che si rivoltava negli animi irrequieti di chi voleva sperimentare l’ibridazione estrema e mai come allora lontana dai sintomi di ribellione propri di un genere, il metal, ormai votato all’estinzione (quantomeno dell’interesse puro e semplice e dello shock in sé e per sé).

Il grunge – che vi piaccia o meno – aveva seriamente cambiato le regole del gioco, dettando una nuova linea guida a tutte le strade percorribili da lì in avanti, e lo stesso tipo di miracolo è stato compiuto da Primus, Rage Against The Machine, Tool, Jane’s Addiction, Red Hot Chili Peppers, Mr. Bungle, Praxis, Living Colour e chi più ne ha più ne metta. Solo coi Korn è però nata l’esigenza vera e propria di battezzare questo nuovo corso delle cose, il nuovo alveare per la generazione aliena e ribelle che si stava formando sotto i palchi dei concerti più feroci. Come ogni rivoluzione che si rispetti anche questa necessitava di una divisa, un simbolo da esporre ai vecchi per farsi riconoscere, e proprio Jon Davies lo offrì loro in pasto: la tuta dell’Adidas e le sue iconiche strisce. Sembrerà ai più poco meno di una stronzata, ma fu proprio il dare un’identità così marcata, così lontana dalla mise all leather dei propri predecessori, scevra di tutti quei ninnoli appuntiti che ornavano braccia e collo dei TRVE metalheads, e forse solo in parte debitrice ai punk più agée, ma sempre in sonora e sintomatica opposizione.

Qualcuno lo definì per questo “sport metal” (Brian Molko in un’intervista speciale di tanti anni fa su Rock Sound, ad esempio, in tono assolutamente dispregiativo), e perché no? I kids cavalcavano le BMX e le tavole da skate, non erano più i centaurati in odore di straviolenza che furono i propri “padri”, erano più assimilabili alla compagine hardcore melodica e pop-punk – una già adulta e l’altra nascente – ma se ne discostavano per sonorità e contenuti. Più propriamente lo abbiamo chiamato tutti nu-metal. Nuovo come nuovi erano gli intenti.

Bollata come la Generazione X (“Generation X, generation strange”, rappava garrulo il Fred Durst di My Generation), questo stormo di ragazzini sentiva la necessità di raccontare, o meglio, di gridare al mondo il proprio dissesto interiore, i disagi famigliari, i soprusi da parte dei bulli e tutto quello schifo proveniente dall’alto che veniva loro cacciato in gola dai più grandi, dai più “forti”.

Non più “molli” come furono i Figli di Seattle, e nemmeno macho come gli hardcorer, o cristallini come tutti coloro che nell’indie di fine ’80 trovarono conforto, ma uno tsunami multicolore dai capelli tinti, piercing in posti dimenticati da Dio, tatuaggi di ogni tipo e un nuovo e sfavillante modo di porsi, al contempo fragile e violentissimo. Nu, per l’appunto, perché crossover non bastava più, troppo generico, impersonale. Si era reso necessario farsi riconoscere e far sentire la propria voce, che svettasse sopra tutte le altre. Fa sorridere che fu proprio uno di questi “vecchi metallari” a spingere oltre la cortina di nebbia questa creatura neonata: Ozzy Osbourne e il suo Ozzfest fecero da catalizzatore per il nuovo suono e lo propagarono alle orecchie di chi non lo digeriva affatto, cambiando gli assetti. Poco importa se non fu proprio la voce storica dei Black Sabbath a selezionare le band da portare sul Second Stage del suo carrozzone (fu in effetti il figlio Jack). Il “danno” era fatto.

Fu bello anche per chi, come me, visse questo fenomeno sul finire degli anni ’90 e l’inizio dei 2000 – e quindi non proprio in prima battuta – perché quel bisogno costante di mischiare generi e pensieri era imprescindibile da tutto il resto, perché quelle chitarre compresse, le ritmiche e le baselle hip hop, le grida strazianti come richieste d’aiuto miste ad urla di guerra, i synth rubati dall’industrial e i video sgargianti e folli erano una boccata di puro ossigeno. D’altro canto non tutto dura per sempre, e lo sappiamo bene, perché abbiamo visto che fine ha fatto l’hardcore punk prima e il grunge poi, e fu proprio con quest’ultimo che l’insidia portava il logo di MTV. Se da una parte fu proprio l’emittente televisiva a portare nelle nostre case questi suoni, fu Lei stessa a portarli allo sbando, ad una promessa tradita, tramutando ciò che era un simbolo in niente più che un elenco di griffe da stampare nei ringraziamenti di un libretto o da mostrare in un video. A pagarne lo scotto fu proprio la proposta musicale che, per far sì che l’heavy rotation restasse o arrivasse, diveniva di disco in disco più digeribile, easy listening diremmo, meno ribelle e, peggio ancora, innocua.

Sembrava infatti che molte band dell’epoca fossero afflitte da una sorta di “maledizione del secondo disco”, oltre il quale vi erano solo più album dimenticabili e poco coraggiosi. Ci si era adagiati sugli allori della fama e sui morbidi cuscini dei conti in banca sempre più gonfi, e così il movimento perse mordente lasciando tutti quanti con il proverbiale amaro in bocca e in balia di una nuova pletora di gruppetti senza sugo che ricalcavano paro paro i passi già compiuti dagli illustri predecessori divenendone copie stinte e flebili. Un triste epilogo arrivato davvero troppo in fretta. I padri del movimento, ovvero i Korn (seguiti a ruota dai figliocci Limp Bizkit), ci misero un po’ di più a divenire l’ombra di sé stessi ma fecero la stessa infausta fine, con mio enorme disappunto oltre che dispiacere, mentre i Deftones abbandonarono da subito una barca in cui si sono sempre sentiti stretti per raggiungere lidi meno convenzionali, spuntandola abilmente, complice l’eclettica figura di Chino Moreno, da sempre più sostanza che forma.

Non tutto fu però vano, perché questo modo nuovo di intendere la musica aggressiva riempì nuovamente il serbatoio di generi che non decollarono mai sul serio, vedi lo screamo ed il metalcore (quest’ultimo rivelatosi una piaga a dir poco purulenta), gettando così molti semi che, divenuti alberi, talvolta hanno dato ben più di una soddisfazione. L’altro lato magnifico fu quello di mettere in luce con sempre più importanza vitale la figura del produttore. Non furono difatti solo le band in sé a rendere pressoché unico il nu-metal, ma anche quelle figure all’apparenza scomode che furono i produttori. Un lascito a sua volta dell’hip hop, ma che qui vide una nuova luce. Il più importante tra tutti fu proprio Ross Robinson, che si fece latore di molti generi, battezzando e benedicendo tutti gli inizi importanti di quel decennio e degli anni successivi, partendo proprio dai Korn e finendo con gli At The Drive-In, come lo Spirito Santo del male, un male necessario, lo stesso a cui venivano sottoposti i suoi protegé, spingendoli a dare il tutto e per tutto, coi risultati che ben conosciamo. Ci furono anche altri, come Terry Date, Ulrich Wild, Machine e GGGarth Richardson, che apposero una firma indelebile su tutti i solchi a cui diedero la bollinatura, e questo non solo è bene, è Importante con la i maiuscola. Ci ha lasciato qualcosa, che non è cosa sì scontata.

Certo, gli anni passano e quelle che abbiam finito per definire “mode”, che di norma sono passeggere, ci si sono incollate addosso, raggiungendo di fatto l’idealizzazione. Perdiamo la forma di quello che era un pensiero coerente concretizzando ciò che è stato il ribollire di tante realtà così distanti (eppure accomunabili) le une dalle altre. Si è provato, forse con più coraggio che mezzi a disposizione, a far coesistere tutta una serie di personaggi – dai più sfaccettati ai modaioli punto e basta come gli Sugar Ray – sotto un unico ombrello col risultato di far bagnare un po’ tutti. Come dicevo giusto prima c’è chi se n’è andato prima del tempo decidendo di prendersi in pieno l’acquazzone, come la band di Chino Moreno, chi invece ha preferito farsi digerire dai propri successori, ed è il caso degli Slipknot che, ormai privi di inventiva circa dal 2003/4, si sono fatti latori del metalcore che fu, provando a spingerci dentro la propria classe superiore a qualsiasi altra band del suddetto genere, con l’unico risultato di perdere colpi sempre più a lungo e senza possibilità di riscatto. Se questo arriverà o meno con il nuovo album, che con la scusa dell’anniversario del proprio debutto potrebbe anche andare a ripescare da lì suoni e intenzione. D’altro canto lo ha fatto Reznor con “Hesitation Marks”, un gran furbata travestita da ottimo lavoro in studio, perché non potrebbe provarci Corey Taylor?

Non agitatevi impugnando le pietre per la fitta sassaiola dell’ingiuria, perché i processi parrebbero essere in tutto e per tutto simili. È la legge di mercato, il volersi volgere all’indietro per guardare avanti quel tanto che basta per tenere i piedi saldi sul palco, con tutte le volubilità del caso reznoriano, o la difficoltà del #8 di riconoscersi come uno dei migliori cantanti del nu-metal tutto, ed ascoltando gli Stone Sour si può comprendere quanto si sia perso in termini di pura iniezione di bellezza in vista di un rock facilone, debito a tutto quello che il pubblico che fu ha finito per ingozzarsi per la paura – che è di per sé incontrollabile – di vedersi presto dimenticati, formando accozzaglie di gusto appiattito e scevro di curiosità. Il furore, che era conditio sine qua non del racconto, si è trasversalmente spostato su territori di comodo privo dell’urgenza che investì la primissima ondata del genere.

Ciò premesso i dischi incredibili che questo genere effimero lasciarono ai posteri sono tanti. Sapete cosa facciamo? Tentiamo una classifica. I 30 dischi più potenti del nu-metal tutto. Eccoli qua.

Nota: abbiamo scelto di inserire al massimo un disco per band. Giusto per rendere le cose più divertenti e complicate.

30. Godsmack – Awake (2000)

Vero, prendono il nome da un pezzo degli Alice In Chains ed è da lì che arrivano le loro influenze, ma tra testosterone, la voce di Sully Erna, ritmiche quadrate e chitarroni compressi eccoli prendersi il loro posto nell’universo nu. Ignoranti come pochi altri al mondo.

29. Kittie – Spit (2000)

Dalle fredde lande canadesi la voce di Morgan Lander si fa spazio tra i tanti maschietti del genere e li brutalizza. La lezione di Tairrie B è appresa con successo e i 40 minuti scarsi di “Spit” sono pura ferocia.

28. Powerman 5000 – Tonight The Stars Revolt! (1999)

Il fratellone Rob Zombie spadroneggiava nel thrash metal in salsa horror di serie B e quindi Spider One non voleva sentirsi da meno: melodie catchy, industrial dozzinale a far da sfondo, ritmiche da dancehall del nuovo millennio e appariscenza: formula perfetta. Provate a togliervi dalla testa When Worlds Collide.

27 Linea 77 – Ketchup Suicide (2000)

Potete dire quel che volete, che sia derivativo e registrato male, ma il secondo album della band torinese è un unicum nel nostro Paese (e nella discografia della band che mostrerà il fianco appena un disco dopo), non solo: spacca la faccia. Acido, cattivo, pesante, paranoico. Esce per Earache. Non credo serva aggiungere altro.

26. Manhole – All Is Not Well (1996)

Ristampato un paio d’anni dopo con la nuova ragione sociale Tura Satana, “All Is Not Well” apre la strada al nu con frontwoman armata pesante. Otep e Morgan Lander ringraziano Tairrie B per aver mostrato la strada, tra grida e hip hop sfiancante su base di piombo. Roba greve, roba buona.

25. American Head Charge – The War Of Art (2001)

Battezzati da Rick Rubin gli American Head Charge prendono elettronica industriale con un badile e la buttano convulsamente sulle sfuriate del miglior nu slipknotiano e tirano fuori dal cappello un album così feroce e calibrato da non riuscire a bissarsi nemmeno per sbaglio. La voce di Cameron Heacock poi è pazzesca.

24. Hed (PE) – Broke (2000)

Quando volete del nu-metal all’apice della cosiddetta ignoranza mettete su “Broke” e non resterete delusi. Testi che passano da sbronze epiche a visioni fataliste della vita, capacità tecniche della band pari a zero e un sacco di sano divertimento. Ospiti d’eccezione della partita Serj Tankian, Morgan Lander e East Bay Ray (sei corde dei Dead Kennedys). Che sollazzo.

23. Sevendust – Home (1999)

Il calore del soul e il freddo bruciante di chitarre e sezioni ritmiche scorticanti: “Home” dei Sevendust. Lajon Whiterspoon è chiaramente il successore di Corey Glover e dai Living Colour il gruppo ha imparato molto. Poi, ciliegine sulla torta, Skin che duetta con classe su Licking Cream e Chino Moreno che chiude la partita sull’allucinante Bender

22. Staind – Dysfunction (1999)

Prima di quella gran rottura di maroni che sarebbe stata It’s Been A While gli Staind sapevano come incrinare costole e spezzare ginocchia. Mushock pesantissimo a fare da base alla voce sofferta di Aaron Lewis. Ad oggi il miglior disco di questi figliastri del grunge.

21. Taproot – Gift (2000)

Aggraziati come una ballerina e pesanti come un tir, i Taproot sono un’altra band che non può mancare all’appello. La voce di Stephen Richards si dibatte tra mostruose grida e delicatezze melodiche post-hc, di quello professato dai Glassjaw mentre il resto della band gracchia acidume a tutto spiano dalle casse. Again & Again miglior singolo dell’universo.

20. Orange 9mm – Tragic (1996)

Chiusa la faccenda Burn, Chris Traynor e Chaka Malik fondano quel treno sferragliante che erano gli Orange 9mm. Nu-metal da ghettoblaster, infestato da ritmiche post-hardcore e rappate serrate, oscure in purissimo stile newyorkese “Tragic” è una bordata urbana che ha pochi rivali.

19. Amen – We Have Come For Your Parents (2000)

Casey Chaos sa che per fare male, oltre a vergare liriche abrasive, deve chiamare a raccolta una line-up allucinante, così, tra membri di Snot, Lo-Pro e Ugly Kid Joe confeziona due album assurdi. Il migliore è questo, che prende i crismi nativi del nu e innesta l’hardcore punk più putrido di sempre. I testi sono puro anti-USA, anzi, antitutto. Malvagità allo stato brado.

18. Disturbed – The Sickness (2000)

Le atmosfere claustrofobiche di “The Sickness” lo rendono un pezzo da 100. Così come l’immensa voce di Draiman, che tra “versacci” cagneschi e un’innata propensione ad altezze e bravura quasi inusitate da queste parti renderà il debutto dei suoi Disturbed immortale nel genere. 

17. Guano Apes – Don’t Give Me Names (2000)

Dalla Germania con furore. I Guano Apes non sono solo quelli che han reso Big In Japan una cannonata (scusatemi fan degli Alphaville) ma pure quelli che presero a mattonate tutti con due album di pura bellezza. “Don’t Give Me Names” è la chiosa di quanto iniziato su “Proud Like A God”. Sandra Nasic è eccellente e i Guano sanno dare botte da orbi e far ballare i teenager. In certi punti limonate e ceffoni si confondono. Che delizia il pop-numetal!

16. Otep – Sevas Tra (2002)

Quando ascoltati la versione di T.R.I.C. tratta dall’EP “Jihad” che scovai su un sampler di Rock Sound, beh, mi innamorai immediatamente di Otep Shamaya. Quel pezzo è dimostrazione delle immense doti poetico/rappistiche della frontwoman della band. “Sevas Tra” è anomalo per il genere: testi violenti, sì, ma più vicini ad un certo tipo di metal mistico (magari black), atmosfere spaventose, grida che farebbero impallidire chiunque e muse che vanno da Zack De La Rocha a Thom Yorke. Siamo pazzi?

15. Orgy – Vapor Transmission (2000)

In tanti vedono nel debutto “Candyass” il vero capolavoro degli Orgy ma per me la band di Jay Gordon ha dato il massimo della propria espressione con questo. Un pezzo di plastica lucente lanciato a velocità smodata in mondi virtuali in cui a dominare sono netrunner con la maglietta dei Duran Duran ma armati fino ai denti. I synth, i ritornelli new, anzi, nu-romantic, le chitarre digitalizzate e le pulsazioni gelide: tutto perfetto.

14. Stone Sour – Stone Sour (2002)

Corey Taylor recupera dal cassetto la sua prima band sulla scia del successo planetario dei suoi Slipknot e sembra la scelta giusta. Può finalmente dare sfogo alle sue pulsioni “grunge”, prendere il rock e flagellarlo con la sua voce ormai allenata al disastro ma, nel mentre, piazzare pure una hit strappamutande come Bother, che funziona ed è pure figa. Il resto è storia (da dimenticare).

13. Linkin Park – Hybrid Theory (2000)

Vidi il video di Papercut vent’anni fa in televisione e fu colpo di fulmine. Iconici, i Linkin Park, la boy band del nu, forgiatori di hit come dei Backstreet Boys distorti e in botta da Deftones. “Hybrid Theory” è il perfetto disco pop per giovani incazzati. Sia però messo agli atti che avrei preferito inserire “[Reanimation]”.

12. Papa Roach – Infest (2000)

“We’re going to infest”. Vero. Delle tante band che col tempo hanno mandato gambe all’aria le proprie potenzialità i Papa Roach sono quelli che più me le fanno girare. Quando ci penso metto su “Infest” e mi lascio portare dalla voce di Coby Dick nei tanti stati d’animo d’odio teengariale che si fanno strada in questo album tanto scontato quanto pazzesco. 

11. Coal Chamber – Dark Days (2002)

Avrei dovuto mettere il primo omonimo? E perché mai? Certo, micidiale, ma è con “Dark Days” che Dez Fafara e soci faranno implodere la matassa nu-metal in una mostruosa formula gothic, in cui iconografia da festa dei morti messicana va a scoppiare nei cieli degli anni Zero in tutta la sua brutale bellezza. Oscuri, asfissianti, paranoidi, lenti, paludosi, cattivi come una belva messa all’angolo e dunque sufficientemente pericolosi.

10. Limp Bizkit – Three Dollar Bill, Y’All (1997)

Nobody Loves Me è l’inizio dell’eterno piangersi addosso di Fred Durst MA “Three Dollar Bill, Y’All” è l’apice del marciume rap metal: il sound nasale e grasso architettato da Ross Robinson, il bombardamento a tappeto di John Otto e Sam Rivers e le rasoiate di Wes Borland fanno da contraltare dal rapping dozzinale di Fred, mai così imparanoiato e furioso. Anche qui è una cover a buttare tutto in cagnara, col benestare (non credo) di George Michael.

9. Incubus – S.C.I.E.N.C.E. (1997)

Vero, se gli Incubus sono ancora in giro oggi dobbiamo dare la colpa ai Korn che li trascinarono fuori dall’oblio. Siate maledetti. Però senza Jon Davies non avremmo per le mani “S.C.I.E.N.C.E.” e che peccato enorme sarebbe, Sebbene il belloccio Brandon Boyd non abbia un minimo di inventiva personale coi suoi amici è riuscito a dare alle stampe quello che non potremmo non definire il miglior album carbon copy di tutta la storia del nu.

8. Mudvayne – L.D. 50 (2000)

Eccola qui un’altra band che non è stata in grado di portare a compimento quanto promesso nel proprio album di debutto. “L.D. 50” è una mosca bianca del genere, con le sue interazioni jazz, i testi pressoché perfetti, le linee vocali lancinanti e tool-oriented, ritmiche impossibili e melodie assurde e questo lo rende una delle teste di serie di tutto il movimento. Un secondo album promettente con Bottrill ad esprimere tutto l’amore del gruppo per il prog e poi l’oblio. Intanto il dosaggio letale fa il suo lavoro e uccide.

7. Soulfly – Primitive (2000)

Se non fosse stato per Max Cavalera forse non avremmo il nu-metal come lo conosciamo oggi. Santo o incosciente? Allo stesso modo se non fosse per il bestiale “Primitive” il jumpdafuckup non avrebbe lo stesso senso, un po’ per l’omonimo pezzone con Corey Taylor, un po’ per le ritmiche molleggiate su cui, senza soluzione di continuità, l’ex-Sepultura lancia le sue invettive anti-politiche. Sul secondo dei Soulfly poi è riuscito a trovare spazio tanto per Tom Araya quanto per Sean Lennon. Allora lunga vita a San Max da Belo Horizonte.

6. System Of A Down – System Of A Down (1998)

E quando si parla di strali politici non si può non parlare dei SOAD. Di nuovo Rick Rubin (qui con una squadra assurda che conta Sylvia Massy, Dave Sardy, Greg Fidelman e Nick Raskulinecz) e di nuovo la sua innata capacità di tirare fuori da poco e niente l’immensità. Poco e niente però non è il debutto degli armeni che a suon di sberle e picconate tirano fuori dal carbone il diamante (complice l’esagerata prova vocale di Tankian). Volevate “Toxicity”? Questo è un capolavoro. Quello no. Stateci.

5. Static-X – Wisconsin Death Trip (1999)

Wayne Static mi mancava anche in vita perché dopo aver dato alle stampe l’incommensurabile “Wisconsin Death Trip” si è adagiato sul nulla. Poco male, perché questo resta il fulgido esempio di come una voce pazzesca si possa agganciare come il modulo Jet Pilder che si innesta nella testa di Mazinga. Pestoni elettronici, schitarrate come lame scintillanti e un sacco di rabbia. E ricordatevi che Static suonò con Billy Corgan. Così, tanto per.

4. Slipknot – Slipknot (1999)

L’inizio della fine di tutto. Completamente pazzi, performance ad attestarlo con contorno di botte da orbi, svenimenti, sangue e vomito. Brutali come nessuno mai, tantissimi, suono confuso, ultranoise letale, rap, grida, voci immense (Corey Taylor è il miglior performer nu di tutti i tempi), riferimenti alla cultura di serie Z, a famigerati assassini, a film fetidi e meno fetidi e attitudine all’apocalisse. 

3. Korn – Life Is Peachy (1996)

Terzi? Sì. “Life Is Peachy” e non “Korn”? Potete scommetterci. È vero, è il primo album della band di Bakersfield a mostrare la strada, ma solo con questo i Korn strutturano il suono che sarà, il proprio e quello di tutti gli altri. Come Mosé scendono dal monte Oreb e le danno di santa ragione ai miscredenti, frantumano i falsi idoli per poi riscrivere tutto da capo. 

2. Snot – Get Some (1997)

Lynn Strait è stato un fulmine a ciel sereno, come tutta la sua band. In direzione contraria a quella di tanti colleghi questi tamarri da Santa Barbara (CA) hanno per primi abbattuto quella barriera che divideva southern rock, punk e nu-metal, e furono i migliori in quel che fecero. Il disco troppo spesso non viene calcolato da queste parti. È un’eresia e io vi pongo rimedio.

1. Deftones – Adrenaline (1995)

Santificati da Madonna, i Deftones si imposero come gli outsider e sparigliarono le carte del nu che sarà, influenzando e sanificando il genere dalle inutili propaggini. Completi e inarrestabili già dal debutto, quel che si trova su “Adrenaline” è il nuovo nel nuovo. Impareggiabili e, ad oggi, gli unici ad essere evoluti in qualcos’altro, e già da qui si capiva quale sarebbe stato il futuro di Chino, Chi, Steph e Abe. Un futuro che non ha eguali, nemmeno guardando al passato. Primi. Ora e per sempre.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati