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“Unrest”, il fantastico viaggio visionario degli Henry Cow

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Il secondo album degli Henry Cow è davvero una sorpresa per chi è abituato a fruire musica maggiormente lineare e impostata, ma tant’è che gli Henry Cow operano – forti comunque di un amplissimo bagaglio culturale musicale favorito dal mentore Roger Smalley – davvero un distacco nel panorama pop che viene traslato nell’esperienza del free jazz, della musica atonale, dell’avant-garde music e dato sotto l’influenza delle suggestioni di Frank Zappa, altresì evidente dalla gestione critica, politica ed intellettualizzata del collettivo, vissuto a 360° (e che sarebbe importantissimo punto da approfondire).

Già esponenti del Canterbury Sound con il loro primo e leggendario “Leg End“, che dà l’avvio alla trilogia del calzino (vedi le copertine dipinte di Ray Smith), con “Unrest“, del 1974, profilano dunque una nuova stagione musicale inedita. La genesi del disco è vittima di effetti concomitanti, e la band, che già coltivava in seno colture di rottura col ‘già sentito’, si può dire che qui ne abbia scolpito la pietra filosofale, del genere testato.

Trovandosi con pochi pezzi scritti nell’atto di entrare in sala di registrazione per la Virgin, presso il Manor Studio, gli Henry Cow hanno sopperito a questa esigenza sperimentando tecniche già messe in pratica dai Faust, con cui avevano in quel periodo condiviso gli stages per un precedente tour, e cioè di armeggiare in studio con effetti e sovraincisioni, nonché componendo e suonando lì per lì il resto del materiale. Tutto ciò antecedente all’unione con gli Slapp Happy, che li avrebbero sospinti nel breve tempo lungo altri seminali orizzonti.

La specificità di questo vinile è la divisione netta in due parti.
La parte A, più convenzionale, in quanto fa fede a partiture scritte, incluso il primo morceau del lato successivo, Solemn Music – 1:09 (Frith), preceduto da: Bittern Storm over Ulm – 2:44 (Fred Frith); Half Asleep; Half Awake – 7:39 (John Greaves); Ruins – 12:00 (Frith); e la parte B, aperta a sperimentazioni, improvvisazioni e al lavoro di studio ove si elabora il materiale concertando la nuova linfa sonora: Linguaphonie – 5:58 (HC); Upon Entering the Hotel Adlon – 2:56 (HC); Arcades – 1:50 (HC); Deluge – 5:52

In seguito all’edizione su CD sono state aggiunte altre due tracce: The Glove 6:35 (HC); Torchfire 4:48 (HC).

Unrest” ha diviso gli appassionati circa la sua valutazione ed ancora oggi è oggetto di pura osservazione e di ottima critica; ma sorvolando i gusti musicali, rimane assodato che l’album permane nei lidi più spinti di un ascolto rivolto e votato alla scoperta di trame sonore inconsuete, sollecitate dalla perizia raffinata dei musicisti e dalla tecnica espressiva adottata. Anche io sono rimasto estasiato/provato da questo materiale ed ho trovato oggettive difficoltà di assorbimento che via via si sono diradate, sicuro di aver premiato l’ascolto; ed è altrettanto vero che la mia fisicità ha subito una ripercussione inevitabile e tangibile allorquando sono entrato in contatto con i sentieri più inusitati e free.

La formazione degli Henry Cow era fino a quel momento così composta:

Tim Hodgkinson organo, sassofono alto, clarinetto, pianoforte
Fred Frith – chitarra stereo, violino, xilofono, pianoforte
John Greaves basso, pianoforte, voce
Chris Cutler batteria
Lindsay Cooper fagotto, oboe, flauto dolce, voce.

La produzione è affidata alla stessa band e sulla terza traccia Ruins vi è l’apporto in studio di Mike Oldfield, già rilevato in Nirvana For Mice, una traccia del primo disco. Inoltre, il lato B del disco, come dicevo, è lasciato in tutto e per tutto alle mani abili del gruppo anche in sede di mixaggio ed ingegneria sonora.

A 46 anni di distanza dalla confezione di “Unrest” eccoci al traino di un viaggio enorme ricco di fantastica visionarietà che trova disgiunzioni impressionanti, sebbene la particolare caratteristica d’unirle, queste astruse nuove forme, tramite temporale fusione di elementi sonori, permette di ascoltare invece un insieme trasversale, che anche qualora sembri opera di discontinuità, non ne compromettere l’idoneità alla fruizione complessiva che potremmo magari definire “tendente a” (alla libertà espressiva) e giammai ne rappresenterebbe un’imperfezione.

Le alterazioni strumentali, dovute a trattamenti poco frequentati nel pop, impongono condizioni d’esercizio adatte ai sentieri scelti che figurano nella precipitazione di frasi che paiono infragilire il legame musicale  (maggiormente in relazione alla seconda parte del disco, e quindi all’esperienza di studio che ha segnato i futuri lavori di Fred Frith) che talvolta ne fanno diminuire la resistenza di esposizione al corrosivo/smarrente materiale: variazioni di composizioni e assorbimento d’idee conseguono entrambe a profondere un ascolto decisamente non leggero. Queste discontinuità che si generano durante l’esecuzione dei brani attestano qualità soddisfacentissime insite nelle trame impreviste, formanti della struttura data e causa nativa della sua ottica oppositiva; fermo restando che il disco contiene pezzi dotati di rara bellezza.

Su queste premesse gli Henry Cow si introducono attraverso le vicissitudini di un rinnovato dialogo musicale esperito in riguardo alla musica sperimentale ed improvvisativa.

Le magiche partiture iniziali seducono immaginifiche e si avverte a pelle una positività di intenti. I 2’20” di Bittern Storm Over Ulm presentano paralellismi crimsoniani (e degli Yardbirds – Go To Hurry -, stando alle dichiarazioni di Frith), nonché presenta il mood del Canterbury Sound, assomigliando ad uno yellow submarine che procede nella sua navigazione subacquea alimentato da rosse contrazioni effettuate a mantice di fisarmonica, trasformandosi poi in un animato bruco marino verde improntato a scandagliare i fondali blu per mezzo dello spettro del suo sonar.

Gli 8 minuti di Half Asleep; Half Awake dettagliano un pianismo classico che apre a favolistici movimenti della fantasia vagabondando per un mondo variopinto e stregato nel risalto multi-direzionale di congruità swing, jazz, prog e rock, affidate alla magnifica collegialità ingegnata: e si resta attoniti.

I 12 minuti di Ruins spianano accenti e flussi dominati in entrata, lungo essi il quadrato lavorio di basso, batteria, xilofono e tastiere, offrono alla chitarra di Frith, che si rende più audace del primevo Fripp, un assolo singolare che graffia (in odor quasi zappiano, seppur molto inglesizzato), sinché un’aria strampalata da musica da camera si impossessa del brano accarezzando sfumature classiche deviate in chiave experimental e pseudo-barocca, merito dei fiati di Lindsay Cooper e del violino di Frith, che dialogano separatamente con lo xilofono, uscendone in meraviglioso sfrenato allungo poi riaccompagnato a parabola discendente riacciuffando il lirismo iniziale. Ispirato ai lavori di Bartok basati sulla serie numerica di Fibonacci.

Il meraviglioso morceau Solemn Music è estratto (ed è ciò che resta) dalla suite preparata per la shakespeariana, La Tempesta, prodotta da John Chadwick.

Il giornalista Sean Kitching, in un’intervista del 2014, chiese a Chris Cutler di raccontare gli eventi inerenti le registrazioni del lato B di “Unrest“:

Lindsay si era appena unita a noi ed avevamo avuto poco tempo per provare o scrivere nuova musica pensando a lei, quindi entrammo nel Manor privi di musica sufficiente a completare un album. Ma, dopo la nostra esperienza con Leg End, eravamo abbastanza fiduciosi, in un modo o nell’altro, di poter assemblare nuovo materiale in studio attraverso un processo di improvvisazione, selezione, discussione, editing, sovraincisione di scrittura, elaborazione e mixaggio personalizzati. Ed è ciò che abbiamo fatto. È stata un’esperienza che probabilmente ha meglio unito la band, ben oltre il mese-maratona passato insieme a scrivere per  The Bacchae. Siamo rimasti molto soddisfatti del risultato. Per noi è stata una svolta. Siamo stati così contenti del nostro lavoro che abbiamo invitato lo staff della Virgin ad ascoltarlo (al tempo operavano come fossero una specie di famiglia) e ne rimasero piuttosto sconvolti, abbattuti, non sembravano essere molto entusiasti. In effetti, la generale mancanza di interesse da parte della direzione era ciò che subito dopo ci fece uscire dall’Agenzia, cominciando ad organizzare in proprio i nostri tour e concerti.

E continua poi Cutler:

Penso che la seconda parte di Unrest sia ancora uno dei nostri migliori risultati; selezionerei Deluge come un grande pezzo di musica, anche adesso; ed è un pezzo che non avrebbe mai potuto essere messo a segno, essendo un prodotto puro della riproduzione in tempo reale e frutto dell’assemblaggio collettivo. Esso è composto da non più di un loop di 50 secondi, alcune parti di Ruins suonate a metà velocità, diversi strati di sovraincisione minima e un’idea mista a un concetto che è nato autonomamente. Lavorando in questo modo impari ad ascoltare in modo diverso e a pensare in modo diverso. Il modo in cui si legge il Lato 2… è complesso; si ibrida in una sorta di modulo narrativo e fa anche molti commenti involontari su diversi tipi di forma musicale; è un’istantanea che oggi non sarebbe possibile fare. Per noi l’improvvisazione era essenziale, e almeno il 40% di ogni concerto sarebbe stato improvvisato. Potrebbe essere più difficile da ascoltare, ma può essere anche più gratificante; c’è una verità lì”

Unrest” è stato dedicato a Robert Wyatt e al bassista Uli Trepte (Guru Guru, Neu!, Faust, Spacebox).

Don’t disturb me while I’m dreaming
Walk softly on my peace of mind
Though you know I’m close to waking
Leave me while the morning’s breaking

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