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Back In Time

“The Great Southern Trendkill”, i solchi del serpente

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Senza dubbio, all’inizio degli anni ’80, nel mondo del metal tirava un’aria di novità: i Metallica e gli Slayer piantarono i semi del genere trash metal che, nel 1986, con i capolavori “Master Of Puppets” e “Reign In Blood“, ebbe la sua consacrazione definitiva. Inutile elencare quanti gruppi avrebbero aggiunto linfa vitale a questo genere che cambiò le prospettive del metal intero; tra coloro che si ispirano allo stile dei padri fondatori ci sono i fratelli Abbott e i loro Pantera.

La connessione con i giganti del trash è quasi meta obbligata, anche se il gruppo texano fece un passo in più, uscendo dalle linee della vera e propria emulazione stilistica. Infatti, Dimebag, Vinnie, Phil e Rex possono essere considerati come i pionieri di un ramo dell’albero del trash: il  roove metal: le ritmiche sono più sincopate ed imponenti, chitarre deflagranti con assoli abrasivi e taglienti, il tutto è condito con linee vocali che passano dallo scream al growl mantenendo solo a tratti la modalità clean. A descriverla così, sembrerebbe una musica con mood schizofrenico, violento ed esplosivo; infatti è proprio così!

Il bello dell’essere appassionati di musica, è che non sai mai cosa potrai scoprire domani, mettendo su un disco… oggi al massimo facendo un click su Youtube o Spotify. Ma al di là delle note nostalgiche, quando mi capitò tra le mani per la prima volta un disco dei Pantera, un bootleg del 1994, ero reduce dall’ascolto di band quali Megadeth, Sepultura, Testament, Kreator oltre ai sopracitati Metallica e Slayer. Sapendo ben poco sul loro conto e sulla loro storia, dopo essere rimasto affascinato dal loro mood, così maestoso e violento, andai a spulciare ed ascoltare tutto ciò che trovavo. Rimasi piacevolmente sorpreso dalle uscite di “Cowboys from Hell” (1990), “Vulgar Display Of Power (1992) e “Far Beyond Driven” (1994), tanto da essere quasi dubbioso che i futuri lavori della band avrebbero potuto rimanere su tali livelli. Ma i Pantera, con “The Great Southern Trendkill” (1996), fecero vedere a tutti che erano in grado di fare ciò che volevano con la musica, di plasmarla a loro piacimento, senza tradire mai il loro sound originale.

In questo disco, ottava e penultima uscita ufficiale della band, il copione non è stato esattamente lo stesso dei lavori precedenti. Tuttavia, la musica creata da Darrel e compagni non ha cessato di esprime energia e pathos. Infatti, negli undici brani presenti, si alternano tracce feroci e devastanti, forse tra le più brutali mai scritte dalla band, e tracce mid e slow time. Sciuramente, la militanza di Anselmo nei Down, influenzò, non solo il suo stile canoro, decisamente più luciferino rispetto ai precedenti dischi, ma anche il sound dell’intera band.

La title track irrompe con un ruggito di Phil, che spalanca le porte ad un brano rude ed energico, che senza troppi fronzoli, colpisce dritto allo stomaco. Il frontman fa da subito un gran lavoro, dando al tutto un’aria molto più cupa rispetto i lavori precedenti. Tutto sembrerebbe annunciare un altro grande lavoro sulla linea dei precedenti “Cowboys From Hell” o “Vulgar Display Of Power“. Tuttavia con War Nerve (Fuck the Word) e la successiva Drag The Waters i tempi rallentano, ma l’intensità resta imponente. Strumenti e voce pennellano un ambient caustico e soffocante che fonde abilmente il groove con il thrash e il doom metal. Esempi calzanti sono sicuramente le riuscitissime 10’s e 13 Steps To Nowhere, dove Vinnie e Rex fanno un lavoro magistrale disegnando uno sfondo ritmico imponente e cupo.

La vera chicca è il cuore dell’album, prova della versatilità e della capacità compositiva della band: Suicide Note Pt.1, si manifesta come una perfetta ed intensa ballad dal sapore mistico. Esattamente il brano che non ti aspetti: Anselmo sembra essersi ammansito e, con toni docili, coadiuva una melodia fatta dagli arpeggi della chitarra di Darrel, questa volta armoniosa e melodica. Suicide Note Pt.2 è l’antitesi della prima: esplosiva, violenta, con tempi serratissimi che caricano bordate di chitarra granitiche e corrosive. Potremmo considerare queste due tracce come il manifesto di questo disco, una sorta di bipolarismo tra toni cupi e melodici da una parte e brutalità e potenza dall’altra.

Floods racchiude tutto ciò in una sola traccia, mantenendo questo rapporto antitetico vivido e cristallino con Darrel che sfodera uno degli assoli più belli e anche più tecnici da lui mai realizzati. In conclusione d’opera troviamo The Underground In America e (Reprise) Sandblasted Skin: brani maestosi, coriacei eseguiti con millimetrica precisione e con Phil Anselmo indemoniato a dar nuovamente sfoggio delle sue selvagge doti canore.

Questo album è stato concepito in un periodo non facilissimo per la band: il dividersi del possente frontman su diversi progetti paralleli con altre band e la sua tossicodipendenza, che lo portò all’overdose durante il tour di presentazione dell’album, non resero certo semplice la registrazione di “The Great Southern Trendkill“. Tuttavia, il prodotto finale mantiene sicuramente l’asticella molto alta e, come nel mio caso, ha spazzato via ogni possibile dubbio sulla perseveranza di questa band.

Successivamente i Pantera hanno pubblicato “Reinventing The Steel” (2000), un altro ottimo album, che sfortunatamente, dati i rapporti tesi con Anselmo, fu l’ultimo. Nel 2004, si aggiunse la tragica scomparsa dell’indomito chitarrista Dimebag Darrel Abbot, che spazzò via ogni speranza di rivedere la band insieme.

A volte, penso che questa band sia finita presto, troppo presto, e che, visto il contributo dato all’universo del metal, avrebbe potuto sorprendere ancora e ancora. Non ci resta che continuare a goderci i loro grandi dischi; quindi prendete i vostri vinili, cd o quant’altro, metteteli su, premete play e non perdete occasione di rivivervi fino in fondo i Pantera.

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