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Back In Time

“Three Imaginary Boys”: quando una lampada, un frigorifero e un’aspirapolvere diedero vita ai Cure

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L’estate scorsa ho avuto la fortuna di assistere a un concerto dei Cure; questo mi ha aperto un nuovo mondo: la totale immersione, la catarsi; è un viaggio in cui Smith e soci ti prendono per mano dalla prima nota e ti trascinano nel loro mondo; non puoi fare altro che stare lì, ipnotizzato, a tratti incapace di muoverti e lasciarti trasportare. Ti giri e ti rendi conto che le persone accanto a te stanno provando le tue stesse emozioni, fino alla fine perché anche i sogni più belli prima o poi finiscono.

È un’Esperienza (scritto volutamente con la ‘E’ maiuscola), che, ascoltando oggi il loro primo album, sarebbe difficile immaginare o prevedere. 41 anni fa, nessuno avrebbe pensato che questa band avrebbe regalato tanto al rock anni ‘80.

Ma torniamo al principio e cerchiamo di fare chiarezza su questo travagliato esordio post-punk. Diciamolo chiaramente, “Three Imaginary Boys” non è l’album migliore dei Cure, non ha una precisa direzione stilistica e a tratti sembra quasi un lavoro irrisolto.

Robert Smith ha affermato in diverse interviste che questo è il disco di cui va meno fiero. Affermazione inevitabile in quanto la band è stata completamente esclusa da qualsiasi decisione: le canzoni da inserire nell’album, l’ordine dei brani, l’immagine di copertina sono tutte decisioni prese esclusivamente dalla casa discografica e dal produttore Chris Parry.

E se la tracklist non soddisfa la band, questa sarà maggiormente delusa dalla copertina: una lampada, un’aspirapolvere e un frigorifero, tutto su sfondo rosa. Nella sua biografia Laurence Tolhurst (il batterista della band) afferma: “Dovevamo inventarci delle storie su chi fosse chi quando i giornalisti ci chiedevano il significato della copertina; nessuno voleva essere il frigorifero”.

Drip, Drip, Drip, Drip…, sabato sera e un rubinetto che gocciola. 10:15 Saturday Night è il brano che apre l’album, molto minimal e con un consistente uso di basso (scelta stilistica che caratterizza tutto il lavoro). Sicuramente degne di nota sono Grinding Halt e Fire In Cairo, brani in cui si può percepire il sound dei prossimi Cure.

Come anche Three Imaginary Boys che preannuncia lo stile dark che contraddistinguerà i prossimi lavori: “Close my eyes / And hold so tightly / Scared of what the morning brings / Waiting for tomorrow / Never comes / Deep inside / The empty feeling / All the night time leaves me”.

Purtroppo gli altri brani (qualcuno più, qualcuno meno) sembrano quasi delle demo. In particolare Foxy Lady, cover del celeberrimo brano di Jimi Hendrix e unico pezzo non cantato da Robert Smith ma dal bassista Michael Dempsey, la versione originale viene completamente stravolta, ma non in senso buono!

Bisogna ora aprire un capitolo a parte per i due grandi esclusi: Killing An Arab e Boys Don’t Cry. La prima è stata pubblicata come singolo circa un mese prima dell’uscita dell’album, il testo venne da molti frainteso come un inno razzista e per questo esclusa dal lavoro, nonostante fosse una canzone molto valida e Robert Smith abbia più volte negato le accuse di razzismo. Boys Don’t Cry invece non ha bisogno di presentazioni, la canzone venne pubblicata un mese dopo l’uscita dell’album ma ritenuta dalla casa discografica troppo ‘Pop’ per entrare a farvi parte. È paradossale come ora sia considerata una canzone emblema del gruppo.

Fortunatamente, qualche mese dopo Robert Smith riesce a far valere la sua e la riedizione americana dell’album è totalmente diversa dall’originale; per prima cosa il titolo: non si chiamerà più “Three Imaginary Boys” ma “Boys Don’t Cry”; la copertina sarà completamente diversa (sempre molto minimal) ma diversa; la tracklist viene completamente rivista con l’inevitabile esclusione di Foxy Lady e l’inserimento di Killing An Arab e Boys Don’t Cry.

Nonostante si faccia fatica ad apprezzare per intero questo lavoro sarà comunque un album che aprirà le porte alla successiva discesa ‘dark nichilista’, se vogliamo uno dei periodi migliori che i Cure abbiano mai avuto. Probabilmente senza “Three Imaginary Boys” non sarebbero nati capolavori indiscussi come “Disintegration” o “Pornography“; e soprattutto da quest’album la band avrebbe imparato una grande lezione: di lì in poi non avrebbero permesso più a nessuno di prendere decisioni al loro posto.

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