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“Rimini”: canzoni in direzione ostinata e contraria

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È inutile aggiungere altro, oltre a quanto si è già abbondantemente detto negli anni, sull’immensità della discografia e del personaggio di Fabrizio De Andrè. Fra i pochissimi a dare voce agli ultimi, “a quelli che stanno ai margini perché ce li ha cacciati il sistema o perché l’hanno scelto loro” (ipse dixit a proposito di quelle da lui stesso definite “anime salve”), fra i più notevoli a ricostruire nel dettaglio i problematici contesti storico-politici dei suoi tempi canzonandoli con maestria. La moltitudine di brani vestiti della voglia di porre al centro coloro che venivano additati e ingiuriati ha posto De Andrè all’apice della sfilza di cantautori della decade dei Settanta pur non avendolo mai preteso, né richiesto.

Perlomeno non è quello che si coglie ascoltando dischi come “Storia Di Un Impiegato” o “Non Al Denaro, Non All’Amore Né Al Cielo“, per un cantautore così fare musica è stato sinonimo di riflessioni a cui portare, morali da cogliere e orizzonti da aprire più che vendere. L’anno di pubblicazione di “Rimini” è il 1978, un anno che ha portato degli spaccati notevoli nell’Italia dell’epoca, uno di quelli il cui ricordo non si affievolisce in chi l’ha vissuto in prima persona. In quegli anni la storia del nostro Paese si è composta di punti salienti senza saperlo (l’assassinio di Aldo Moro e quello di Peppino Impastato per citarne un paio) che hanno stravolto gli equilibri interni della già di per sé precaria politica italiana.

Pubblicando questo disco De Andrè si è in parte allontanato dalla benvoluta chanson francaise che sin dagli esordi ha rappresentato un suo tratto distintivo, la sua onnipresente chitarra si attornia in questo caso di strumentazioni fin qui insolite e richiamanti un folk particolarissimo, movimentato e ballabile come finora non è capitato. Certo, non sarebbe De Andrè se nonostante l’approdo verso nuove sponde non figurassero gli emarginati e gli scherniti, per i quali sempre c’è stato posto nelle liriche altissime del cantautore genovese. O se a fare da sfondo nei brani non ci fossero le delusioni e le riflessioni date dal malcontento generale che imperversava a causa dell’inefficienza sociale a quel tempo. Difatti “Rimini“, esattamente come gli altri step della sua discografia, non si esime dal fare il punto della situazione e lo si comprende sin dall’incipit in cui si palesa la proverbiale sensibilità cantautorale di De Andrè.

In Rimini, brano d’apertura del disco, si affronta l’aborto con poeticità, questo malvisto fenomeno dilagante vissuto da una ragazzina della provincia romagnola colma di amori estivi, quindi destinati a finire, ma che lasciano il segno.  La città, già presa in esame dal genio di Fellini nel suo omonimo film, si fa scenario di sogni e avventure che non esistono, di cui solo la Teresa del testo si nutre per spirito d’evasione, indirettamente comparati al comunismo rivoluzionario che va lasciando solchi (“ Teresa parla poco, ha labbra screpolate, mi indica un amore perso a Rimini, d’estate. Lei dice bruciato in piazza dalla santa inquisizione, forse perduto a Cuba
nella rivoluzione o nel porto di New York nella caccia alle streghe oppure in nessun posto ma nessuno le crede
”).

Il brano che più degli altri mostra l’asprezza del cantautore rispetto alla politica di quegli anni è Coda Di Lupo, “è una disperata disamina della rivolta sessantottina e del riflusso della speranza della fantasia al potere nell’aria dei gruppi autonomisti, come gli Indiani metropolitani. […] è fallito tutto, andiamo a fare un mestiere qualsiasi, allora vendere cocomeri può valere come andare a cacciare bisonti in Brianza”. È una canzone fantasiosa, qui De Andrè usa la metafora del ragazzo pellerossa che muove i primi passi nella sua società per creare un’analogia con i ragazzi cresciuti negli anni Settanta, negli anni della contestazione giovanile e degli anni di piombo.

Sarebbe bello e utile poter dare anche un solo accenno ad ognuno dei brani presenti in questo disco; mi rendo conto, però, che diventerebbe un lavoro troppo arduo, considerando principalmente la complessità di ognuno di essi (qualora si decida di approfondire il disco si dia un ascolto ad Andrea, Sally e Folaghe). Mi limito quindi ad “analizzarne” un ultimo, di grande impatto anch’esso e fondamentale per delineare ulteriormente quanto finora detto sul cambio di rotta stilistico di De Andrè riscontrabile in “Rimini“.

È Zirichiltaggia (Baddu Tundu) (che significa Lucertolaio, Ballo Tondo), una dinamicissima folk song colorita da violini e fisarmoniche che donano vivacità ed allegria a tutto tondo. Il testo è in lingua gallurese (dialetto di una zona della Sardegna al tempo vissuta dallo stesso De Andrè con la compagna Dori Ghezzi) e tratta di un litigio tra fratelli in seguito al lascito del padre; uno accusa l’altro di aver ingiustamente ereditato la parte migliore del testamento ma non dispera, riflette inoltre sul fatto che la moglie e il figlio vivono meglio della moglie e del figlio del fratello accusato. È un brano d’omaggio alla terra che gli ha fatto da culla per quattro anni della sua vita, quelli in cui avventure e disavventure (è noto il tragico rapimento avvenuto tra l’agosto e il dicembre del 1979) si sono susseguite.

Niente da dire, Fabrizio De Andrè è un mondo: presenta parti inesplorate (ed impossibili da esplorare, autentiche) e parti esplorate, quelle che l’hanno reso il mito che è.

Mi chiedo cosa penserebbe uno come lui dei tempi bui che oggi viviamo, quanto vivrebbe scomodo in una società individualistica come la nostra. Lui che ha cantato di ingiustizie e soprusi con dedizione, che ha sempre tentato con la sua musica di far salire dal fondo della scala sociale coloro che hanno occupato, e continuano purtroppo ad occupare, non oltre gli ultimi gradini.

Un disco come “Rimini“, e non di meno le altre sue altrettanto valide fatiche discografiche, resta invariato nel tempo principalmente per questo, si fa manifesto di un pensiero moralmente lontano da noi, un manifesto di dettami che ci ricordano che in fondo la teoria de “l’essere dalla parte degli altri” non è difficile da abbracciare.

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