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“The Man-Machine”: passato, presente e futuro della musica elettronica

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The Man Machine” è il settimo degli undici gioiellini che compongono la discografia in studio dei Kraftwerk. Siamo nella seconda metà degli anni Settanta, un po’ ovunque si respira aria di cambiamento, di sperimentazione, di voglia di investire su qualcosa che finora non è riuscito ad emergere. E l’elettronica si fa modello di tutto questo. Il mondo della musica è suddiviso in due grandi parti (come la stessa Germania in quegli anni!): a padroneggiare, da un lato, c’è l’ondata rock che prende sempre più il sopravvento, tanto da spingersi verso territori nuovi (il punk dei Sex Pistols o il post-punk dei Joy Division); dall’altro c’è un impulso irrefrenabile che si discosta con stile dai chitarroni di Rotten e co. e dalle atmosfere cupe di Ian Curtis e soci, optando per una modernità, poco nota fino ad allora, a suon di computer e sintetizzatori.

Ed è esattamente questo che sognano Ralf Hutter e Florian Schneider, due studenti del conservatorio di Düsseldorf, una volta chiusa la parentesi Organisation (gruppo in cui hanno militato) e aperta ufficialmente quella dei Kraftwerk. Nei primi anni Settanta la band, all’epoca composta esclusivamente dai due, si imbatte in questa nuova ed entusiasmante avventura dando vita a tre album che, nonostante la ventata di innovazione che hanno rappresentato, non hanno contribuito in chissà che modo a dare un’identità al duo. Ma la svolta è dietro l’angolo: è il 1974 a fare la differenza, anno di pubblicazione di “Autobahn“, il disco che più degli altri si è aperto al concetto di novità, a nuovi suoni, a nuove idee, a nuove atmosfere, a nuove direttive stilistiche e a nuove personalità musicali. Il tutto proposto ad un pubblico maturo, voglioso di sonorità sintetiche come quelle dei nuovi Kraftwerk e che sembra apprezzare notevolmente questa mutazione. E apprezza al punto da favorirne il percorso in salita dei due, il seguito dei quali diviene una gloria continua, tanto da far lievitare il numero di date dal vivo e con esso la componente base del gruppo a cui si aggiungono Wolfgang Flur, percussionista, e Klaus Roeder, chitarrista/violinista. La formazione nel 1978, anno di “The Man-Machine“, è quindi completa con Hütter alla voce, tastiere e sequencer, Schneider ai synth e al Votrax, Bartos e Flür alle drum machine.

È il momento in cui la rivoluzione pop dei quattro ragazzi tedeschi prende piede a bandiere spiegate. È da dire, però, che per quanto “The Man-Machine” rappresenti oggi un disco glorioso e da apice indiscusso, non ha raggiunto il successo meritato nell’immediato, ci son voluti più o meno tre anni prima che entrasse in classifica. Ma dopodiché il processo è inarrestabile, è arrivato indisturbato il momento della tanto attesa consacrazione dei Kraftwerk, culmine a cui ogni musicista mira.

L’album è uno di quelli che si ascolta tutto d’un fiato, senza pensarci troppo, essendo composto da sei tracce. Sin dal brano di apertura, The Robot, si crea il contatto con il moderno, col synth e le drum machine  e i suoni plastici e inevitabilmente ballabili a cui danno vita. Ogni tassello di “The Man-Machine” contribuisce per avallare la nuova posizione dei Kraftwerk nel panorama musicale, sostenuta anche dai videoclip molto sperimentali che sono stati girati a sostengo dei brani del disco. Tra le graziosità new wave di Spacelab, il sound acido di Metropolis e l’eleganza di The Model, probabilmente il brano più noto del disco, l’ascolto scorre via veloce e indolore, alla fine del quale resta solo il senso di amarezza dato dall’impossibilità di tornare indietro nel tempo per vivere in prima persona quei periodi così allettanti e piacevoli per ballare sotto ad un palco e non con delle cuffie all’orecchio. Provare per credere.

The Man-Machine” è un disco proiettato verso il futuro, premonitore per certi versi. Sono racchiusi al suo interno, seppur in modo velato, suoni e idee che hanno spianato la strada a generazioni intere di artisti che ringraziano l’impeto dei quattro di Düsseldorf per i risultati dati.

È la prova testata del fatto che esiste musica che non gode della dovuta notorietà, in Italia perlomeno, ma che, pur restando nella nicchia a cui appartiene, rappresenta un concreto punto di partenza verso decadi goduriose.

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