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Public Practice – Gentle Grip

2020 - Wharf Cat Records
Dance punk / funk / no wave

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Tracklist

1. Moon
2. Cities
3. Disposable
4. Each Other
5. Undermeath
6. See You When I Want To
7. My Head
8 Compromised
9. Understanding
10. Leave Me Alone
11. How I Like It
12. Hesitation


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I want to be a part of it, New York New York! Alzi la mano chi non l’ha cantata cercando di imitare Frank Sinatra o Liza Minnelli. Di omaggi musicali la Grande Mela ne ha ricevuti un’infinità, ragion per cui quando ne arriva uno nuovo è il caso di osservarlo con interesse bilanciato da adeguato spirito critico.

Da New York arrivano i giovani Public Practice, che hanno esordito nel 2018 con l’EP “Distance Is A Mirror” e subito hanno capito che il loro approccio poteva iniziare a funzionare sul serio. Così si sono chiusi in casa (nel vero senso della parola) e hanno passato un intero anno a studiare, comporre e perfezionare: il risultato è “Gentle Grip”. Non parliamo di quattro sbarbatelli alle prime armi, ma di giovani dal solido background. La bella e magnetica Sam York, oltre a cantare molto bene, scrive quasi tutti i testi; Vince McClelland è il chitarrista ed anche il fonico; Scott Rosenthal è batterista e producer, mentre Drew Citron è bassista e addetto ai synth. Una piccola azienda insomma.

L’idea di fondo da cui nasce “Gentle Grip” è, appunto, un album ispirato alla musica proveniente da New York: sì, ma quale? McClelland si è detto affascinato dalla punk-dance, percependo qualcosa di casereccio nella registrazione dei grandi classici esplosi sul finire degli anni ’70, dai Liquid Liquid agli ESG, fino ad arrivare – ovviamente – ai Blondie di Debbie Harry, vera musa ispiratrice di Sam York.

Oltre ad avere le idee chiare su cosa comporre, i Public Practice sanno anche molto bene come farlo: tre quarti della band possiede conoscenze ingegneristiche, in alcuni casi impreziosite dalla passione per la collezione di attrezzature elettroniche. Lo stesso McClelland, tutto da solo, ha messo in piedi un intero studio di registrazione nel cuore di Brooklyn. Nel suo studio, Vince ha iniziato a incidere alcune demo sopra le quali gli altri hanno costruito il resto. Altri pezzi sono registrazioni di veri e propri live consumati dentro lo stesso studio.

I testi scritti da Sam completano l’opera, che vuole essere un viaggio nelle contraddizioni della vita moderna. Tutti noi ostentiamo buon senso, afferma Sam, ma se veniamo messi davanti all’opportunità di fregare qualcuno per avvantaggiarci cosa facciamo? Si tratta di trovare un equilibrio tra desideri morali e materiali. E come darle torto.

“Gentle Grip” è diviso in 12 tracce, il viaggio inizia con lo splendore della sorprendente Moon: un impatto iniziale devastante, l’ascoltatore viene catapultato nei meandri delle menti degli ingegneri, suoni di ogni tipo sottolineati dalla voce eterea di Sam. La New York di fine settanta, con tutto il suo fascino introspettivo da post punk che sconfina nella new wave a passo di danza (chi ha detto Talking Heads?) si materializza con Cities.

A questo punto il disco ha un passaggio a vuoto: Disposable è un fuori pista evitabile, troppo eterogenea nella sua pur valida eccentricità. Ma niente paura, Each other riporta la macchina in carreggiata con un onesto groove dance punk.

Parlando di the city that never sleeps, mescolando canti e balli che durano tutta la notte, la mente non può che tornare alla leggenda dello Studio 54. Il trittico composto da Undermeath, See you when I want to e My head va ballato in pedi sui tavoli, con i pantaloni a zampa e i capelli cotonati, non c’è storia. La leggenda continua con Compromised, un modo come un altro per Sam York di dichiarare il suo amore nei confronti di Debbie Harry, seguito a ruota dal punk più classicheggiante di Understanding.

Spunti interessanti arrivano da Leave me alone, ma l’elettronica dominante e il finale a tinte psych non sono sufficientemente bilanciati, stridendo con il contesto. In tema di richiami alla leggenda, in How I like it riecheggiano i fasti di Pere Ubu e Devo, mentre con il finale a trazione funk affidato a Hesitation il totem ha il volto di Stevie Wonder.

“Gentle Grip” suona bene, i ragazzi sono bravi e il mix tra dance, funk e no wave, con il punk sullo sfondo, rappresenta un tentativo di revival tutto sommato interessante. Non si fanno preferire invece i Public Practice troppo sperimentali: non che non siano validi in sé, ma proprio perché “Gentle Grip” è concepito per essere un disco di musica da ballo. Talune trovate eccessivamente no wave cozzano con il resto, tendono al riempitivo fine a se stesso. Se poi il prossimo lavoro fosse incentrato esclusivamente sull’elettronica sperimentale, i quattro di New York spiazzerebbero tutti. E diventerebbero maledettamente attraenti.

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