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“Tarkus”, la prova generale del capolavoro di Emerson, Lake & Palmer

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Keith Emerson, Greg Lake e Carl Palmer. Non serve un nome – magari evocativo – per uno dei primi super-gruppi della storia: basta accostare i loro cognomi e il gioco è fatto. La & commerciale trasforma la denominazione in un vero e proprio brand, capace di imprimere un indelebile marchio di fabbrica alla sua produzione e all’intera storia del rock.

La storia di Emerson, Lake & Palmer, o ELP se più vi piace, inizia appunto dalla fusione di tre elementi provenienti da contesti diversi. All’alba degli anni ’70, il virtuoso tastierista di Todmorten è già attivo da qualche tempo con i Nice, uno di quei gruppi che oggi verrebbe chiamato power trio. Insieme a Lee Jackson e Brian Davison, Emerson porta avanti una rivoluzionaria idea di rock, basata sulla predominanza delle tastiere e l’assenza di chitarre. Non bastasse, i tre abbinano la modalità espressiva di matrice rock alla passione per la musica classica, soprattutto di Bach e Bartok, al fine di creare una sorta di prog-rock con declinazioni sinfoniche.

Alla fine degli anni sessanta, i Nice condividono qualche data con i King Crimson di Robert Fripp, freschi di pubblicazione di In the court of the Crimson King. La scintilla tra Keith e il bassista dei Crimson Greg Lake è immediata. I due si piacciono, sanno di avere molte affinità artistiche, ma soprattutto sentono di poter dar vita a qualcosa che vada oltre i Nice e i King Crimson. Una band “definitiva”, insomma. Da un lato Sua Maestà Robert Fripp farà di tutto per tenere insieme la sua band, ma dall’altro con l’addio di Lake inizierà ufficialmente la fase moderna dell’epopea del Re Cremisi, caratterizzata da profondi cambi di line up e stili compositivi, con risultati spesso epocali.

Al contempo inizia l’avventura di Emerson e Lake, che hanno le idee chiare quanto è vero che manca ancora (almeno) un batterista. Vengono sondati calibri di livello assoluto, su tutti Ginger Baker dei Cream, Jon Hiseman dei Colosseum e, direttamente dalla Jimi Hendrix Experience, Mitch Mitchell. Quest’ultimo sembra il più interessato, ma non vuole separarsi da Hendrix. Così rimbalza a Keith un’idea folle, detta più o meno in questi termini: “Hey Keith, che ne dici se alla band si unisse anche Jimi, d’altronde a voi manca un chitarrista”.

Ora, non ce ne vogliano Carl Palmer, Mitch Mitchell o qualunque altro batterista fosse nella testa dei discografici, ma proviamo tutti insieme a immaginare solo per un attimo ad un gruppo composto da Keith Emerson alla tastiera, Greg Lake al basso e Jimi Hendrix alla chitarra: ogni commento è superfluo. In realtà, lo stesso Emerson non chiuse definitivamente la porta a Mr. Hendrix, piuttosto voleva valutarla in un secondo momento, magari per qualche progetto da affiancare alla produzione del suo trio. La morte di Jimi piombò inesorabile il 18 settembre del 1970, ponendo fine a qualsiasi discorso.   

Tra la ricerca forsennata di un batterista e la quasi disperazione dovuta al fatto che nessuno possedeva le caratteristiche giuste, ai due viene presentato Carl Palmer, più giovane d loro ma già attivo con gli Atomic Rooster: “He’s the man!”, pare si siano detti Emerson e Lake durante il provino.

Emerson, Lake & Palmer debuttano dal vivo al Festival dell’Isola di Wight, a fine agosto del 1970. Un’edizione storica da molti punti di vista: oltre ad essere la solita parata di artisti del calibro di Joni Mitchell, Joan Baez, Who, Miles Davis, Jethro Tull e Leonard Cohen, è l’ultima volta per Jimi Hendrix su un palco e per i Doors insieme a Jim Morrison.

Nello stesso periodo esce il primo omonimo album, che per certi versi resta una pietra miliare della storia del rock. Lo stile compositivo degli ELP, concetto valido per l’intera loro discografia, è subito chiaro: virtuosismi strumentali ai limiti del delirio, testi scarni ma inseriti al momento opportuno e pompose riproposizioni di opere classiche. Dopo qualche mese il trio si esibisce al Newcastle City Hall, concerto dal quale verrà tratto l’album live “Picture At An Exhibition”, uscito solo qualche mese dopo in quanto la band dà priorità a “Tarkus”, che vede la luce il 14 giugno del 1971.

“Tarkus” viene registrato in soli sei giorni e nel breve volgere di qualche settimana raggiunge la vetta nelle charts britanniche. Il titolo è una crasi tra Tartarus, un sinonimo di inferno, e carcass, inteso come carcassa di animale. Proprio gli animali, o quanto meno le loro rappresentazioni favolistiche e mitologiche, sono i protagonisti di una feroce metafora tesa a criticare la politica estera portata avanti dall’America in Vietnam e nell’ambito della guerra fredda.

La particolarità dell’album, oltre all’organo in luogo delle chitarre, ha quale tratto distintivo rispetto allo standard della produzione progressive di quei tempi il fatto che la storia è narrata solo in parte nei pezzi che lo compongono. Al resto ci pensa una corposa work art curata dal disegnatore William Neal, che ovviamente parte dall’iconica copertina. “Tarkus” è un animale meccanico, un carro armato con le fattezze di un armadillo. Combatte contro i suoi nemici, mostri ibridi come lui: un insetto lancia missili, uno pterodattilo bombardiere, fino ad arrivare alla manticora, che meccanico non è.

Il rock e la musica classica incrociano quindi i loro destini con la mitologia. Il leone con il corpo ricoperto di aculei, la coda di uno scorpione e la testa di un essere umano feriscono all’occhio l’armadillo, il cui uovo era venuto fuori dopo un’eruzione. Sentendosi ormai sconfitto, in segno di resa e in contrapposizione alla sua natura di fuoco, si ritira mestamente in mare.   

Dal punto di vista prettamente musicale, il lato A dell’album è dominato dalla lunga suite che porta il titolo del disco. Tarkus, come tradizione classica impone, è diviso in sette movimenti, un concept che ripercorre la vita dell’armadillo meccanico dalla nascita alla sconfitta finale. Eruption è un isterico 5/4, che narra del vulcano che esplode e depone l’uovo che, rompendosi, genera Tarkus. Man mano che scorre via, la suite assume sempre più corpo e sostanza musicale, spiazzando l’ascoltatore con sequenze ed elementi sonori sempre diversi. In Stones of years si affaccia per la prima volta la languida voce di Lake, che introduce le varie battaglie raccontate nella successiva Iconoclast. La vittoria finale sembra vicina, Tarkus è sempre più pieno di sé, passaggio sottolineato nell’assolo di Mass, al quale si aggiunge un’inedita chitarra elettrica sfoderata da Lake. Eccoci quindi giunti allo scontro finale, che nel dittico composto da Manticore e Battlefield coincide con il punto più alto del disco. La lunga composizione si conclude con Aquatarkus, una marcetta che torna al tema iniziale e che fa da didascalia al triste ritiro in acqua di Tarkus.

Il lato B è decisamente un altro disco. Su sei pezzi almeno due sono riempitivi, forse a causa dell’eccessivo entusiasmo di veder pubblicata la suite trainante. Dei restanti si salva giusto qualche sprazzo. Ciò rende “Tarkus” un mezzo capolavoro, irresistibile e incompiuto allo stesso tempo. Più di ogni cosa, è una prova generale, un tentativo riuscito a metà di concepire il disco perfetto. Non era quello il momento, ma lo sarà dopo poco. Giusto il tempo di pubblicare il già pronto “Picture at an Exhibition”, seguito un anno dopo da “Trilogy”, nel 1973 la storia del super trio, e quella del rock del futuro, prenderà una nuova strada, il cui punto di partenza – e di non ritorno – avrà un nome ben preciso: “Brain Salad Surgery”.   

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