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L’esordio acerbo, crudo e vero dei White Stripes: un ossimoro irriverente

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Fuori da ogni dubbio, se accennassi ad un duo musicale, la prima cosa che immaginereste sarebbe una voce mainstream accompagnata da una chitarra acustica. Mi dispiace, ma dovrò deludervi. E non solo per questo, probabilmente.

No, non sono nati nel 2006 solo per farvi cantare a squarciagola durante i mondiali di calcio. Loro, più che un calcio, sono una speronata sul pelo lucido di un cavallo nero senza redini e padroni. E pensare che il loro nome è ispirato a delle caramelle alla menta. Allora? Ho dato abbastanza indizi?

Ecco il nostro vincitore in fondo alla sala, puntate i riflettori su di lui! Come ti chiami? John. Ed è proprio lui, Long Gone John della Sympathy for the Record Industry, che presenta al mondo discografico The White Stripes!

1999: esordiscono con il loro album omonimo, ma niente camicioni a quadri e capelli lunghi. Timpano, cassa, rullante ed un cembalo: inizia Jimmy The Exploder. Suoni aspri, una voce dalle reminiscenze psichedeliche, cambi di andamento, come se ci si proiettasse dentro una spirale rossa… a strisce bianche.

Va bene, 2 minuti e 29 secondi sembrano essere bastati per folgorarmi con la loro genuina energia. Sebbene sia viva la voglia di rivoluzionare, l’importanza della tradizione non si dimentica nemmeno in questi contesti. È infatti di Robert Johnson la prima cover di questo disco, ed è subito un tuffo negli anni trenta: riff ostinato come un treno dal Mississippi, chitarra slide irruenta, voce come se fosse emessa da una vecchia radio in una locanda sudicia, la batteria quasi picchiata: a 27 anni dalla prima reinterpretazione dei Rolling Stones in Exile on Main Street, viene nuovamente al mondo Stop Breaking Down.

Esplorando la tracklist, ci si immerge in un viaggio tra le sonorità del blues di Chicago e dell’hard rock ‘70s: tra Muddy Waters e Led Zeppelin, i riff acidi di Jack White (nome d’arte di John Anthony Gillis) e le batterie vigorose di Meg White sono gli ingredienti di questo insolito duo di Detroit. Ci sono i passi pesanti, lenti ed ubriachi di Suzy Lee, le chitarre a-là Jimmy Page nelle ballate Sugar Never Tasted So Good e Do, l’aspro boogie woogie di When I Hear My Name, i cantati ora melodici ora biascicati, come in One More Cup of Coffee di Bob Dylan – un’altra cover tratta dal loro bacino comune d’ispirazione; d’altronde è inevitabile percepire reminiscenze folk nella loro cifra stilistica.

Se da un lato ci sono i fumi della psichedelia e del classic rock, dall’altro il punk reazionario impone la sua presenza e consacra un sound che diventerà il trademark dei The White Stripes. Qualcuno ha detto Stooges?! Broken Bricks sembra proprio un’ode all’irruenta band statunitense capitanata dal carismatico Iggy Pop. Ma questa è solo l’ennesima e non di certo unica ispirazione dai buoni vecchi anni settanta: sembra quasi che abbiano fatto un viaggio indietro nel tempo!

Il plettro sferra tre colpi oltre il capotasto, suona uno stridulo ed acido countdown. Esplode The Big Three Killed My Baby: lenta, bisunta, a gola storta. Ed ancora Cannon, col suo incedere lento, nervoso ed impazientemente blues. E come non citare Screwdriver, tra stop macigni Bonham-oriented e quel tipico flusso ritmico di artisti come John Lee Hooker, che richiama anche le sonorità di Happy Trails dei QuickSilver Messenger Service. Insomma, ad ogni ascolto emergono nuovi echi stilistici.

È crudo, acerbo, vero. Un ossimoro irriverente.

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