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“Vivid” dei Living Colour, uno shock culturale nel cortocircuito del rock americano

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A distanza di tanti anni dal primo ascolto, letteralmente un’altra epoca, di recente la curiosità mi ha spinto a indagare su uno dei dischi più dimenticati della mia collezione. Così, in una di quelle giornate che stentano a trovare un senso, ho inserito il compact disc nel lettore. Niente librerie in streaming, tutto proprio come negli anni Ottanta, un CD. “Vivid” è un album che non sono mai riuscito a metabolizzare completamente e il cui essere diverso rispetto alla musica alla quale ero abituato all’epoca mi ha sempre lasciato estraniato, a tratti con una sensazione di inadeguatezza. Semplicemente non mi sentivo al suo livello. Nel lontano 1988, tra le pareti della mia stanza risuonavano alabarde di suoni, Danzig (“Danzig”), Voivod (“Dimension Hatröss”), Pixies (“Surfer Rosa”), Negazione (“Little Dreamer”), Mudhoney (“Superfuzz Bigmuff”), Metallica (“…And Justice For All”), Disciplinatha (“Abbiamo pazientato 40 anni. Ora basta!”). A loro si accodavano, emergendo dalle mensole incollate alle pareti, molti altri gruppi, che mi bombardavano costantemente per tutta la giornata, spingendo nella mia testa suoni e sensazioni che cercavo, a volte inutilmente, di decifrare con la mia giovane testa adolescenziale. Tanti di loro ancora mi fanno compagnia, altri non sono sopravvissuti all’autunno della maturità (mia o loro, non importa). I Living Colour fanno parte di questi ultimi, finiti nello sgabuzzino del come eravamo, per una di quelle incomprensioni difficilmente comprensibili.

Parte I: l’acquisto.

In un’epoca in cui Internet ancora doveva esser quella che sarebbe diventata, gli strumenti che avevo a disposizione per muovermi nel mondo della musica erano due. Le riviste di settore o i negozi di dischi. Nelle prime trovavo giudizi di appassionati dai quali mi facevo guidare più o meno consapevolmente. Nei secondi, luoghi magici dove passavo minuti che sarebbero diventate ore, scorrevo i raccoglitori avanti e indietro ossessivamente, osservando schiere di copertine e rinviando l’acquisto il più possibile in modo da allungare al massimo consentito il piacere dell’attesa. Come avrei investito le sudate 16.000 Lire che avevo nel portafogli? Quale copertina avrebbe vinto il primo premio? E ora a distanza di anni, mi chiedo: ma io, nella copertina di “Vivid” dei Living Colour, cosa diavolo c’avevo trovato?!

Parte II: il perché.

L’odierna maggiore esperienza mi assolve da quell’acquisto così poco consapevole, fatto basandomi su un’estetica almeno discutibile (ma molto anni Ottanta che si affacciano sui Novanta). Non ne ero al corrente allora, ma oggi sì: acquistai quel disco perché di band di hard rock composte interamente da persone di colore ce n’erano poche (e poche arrivavano nell’Italia di quegli anni) e per poter risaltare dovevano essere speciali. Ed essere prodotti, anche, da qualcuno di speciale. Tutti concordano che Ed Stasium e Mick Jagger lo fossero. Acquistai “Vivid” per colpa di “I Against I” dei Bad Brains, con la speranza di trovarmi di fronte qualcosa di speciale. E in un certo senso lo era, ma non nella forma che mi aspettavo.

Parte III: la band.

Intanto, la band era composta da quattro membri: Vernon Reid chitarrista proveniente dall’underground newyorkese con esperienze jazz e funk, Corey Glover, cioè il cantante che voleva essere attore, il bassista Muzz Skillings specialista in ritmi e melodie e il batterista Will Calhoun diplomato al prestigioso Berkley College Of Music. Questi quattro sono riusciti a consolidare un miscuglio letale di stili: funk, thrash, alternative, jazz, soul, rap. Per l’ascoltatore che ero all’epoca, era troppo. Visto che non avevo capito bene e nonostante gli ascolti ripetuti, ancora nei mesi successivi faticavo a capire, comprai anche gli album successivi, cioè “Time’s Up” e “Stain” pensando che mi avrebbero aiutato ad aprire una luce nell’oscurità. Inutilmente. La questione è semplice: come poteva scaldare il cuore a me, un giovane bianco italiano che viveva nella provincia milanese, un disco che parlava di come ci si sente ad appartenere a una minoranza da tutta una vita, costantemente depauperato e considerato inferiore? Un disco che nasceva da visione chiara e adulta, da un progetto costruito da Reid e compagni nel corso degli anni con esperienza e tecnica, e innanzitutto nella propria testa. Una musica del tutto opposta all’immediatezza, per esempio del punk. Una musica programmata, costruita, voluta con precisione svizzera. Ecco l’incomprensione: è un problema di contesto, un messaggio corretto consegnato alla(e) persona(e) sbagliata(e).

Photo: Antony Barboza

Parte IV: il disco.

Il punto di partenza sono Reid e la sua chitarra, che dopo cinque anni a farsi le ossa con la Decoding Society di Ronald Shannon Jackson (vedi Man Dance), poi va nei Defunkt e poi arriva a Bill Frisell. Lava i panni in Arno. E fonda la BRC. A questo punto è pronto ad agire per conto proprio. Nascono i Living Colour. Con Jagger e Stasium dietro il vetro. Avete l’impressione di una costruzione intellettuale, supportata da tantissima tecnica, fatta a tavolino? Ecco il busillis: quello che percepivo come mia inadeguatezza, era senza alcuna ambiguità un progetto intellettuale e motivato, ma di ardua comprensione agli esterni. A coloro che vivevano fuori dal quel contesto. E da un punto di vista musicale, il disco (alle mie orecchie) rimaneva inespresso anche se suonato molto bene. Anche se realizzato partendo da musica alta. Anche se pensato proponendo una contaminazione intelligente. Una musica che altri avrebbero condotto a livelli più importanti e definitivi (esempio i RHCP), ovvero destinati a un pubblico più trasversale e completo. Più popolare.

Parte V: però, la BRC.

Abbiamo accennato alla BRC, e a prescindere da quale sia il giudizio personale sul disco, non si può non tenere conto del fatto che Reid sia uno dei fondatori della Black Rock Coalition, un collettivo no profit di artisti il cui scopo è promuovere la libertà creativa e le opere dei musicisti neri. L’idea della BRC era di chiarire come il rock (bianco) si fosse evoluto da origini nere e che era necessario combattere gli stereotipi razziali nella musica. Come? Promuovendo e sostenendo le esibizioni di musicisti di colore che suonavano stili musicali di solito associati pubblicamente ai bianchi: quindi hard rock, heavy metal e thrash. “Vivid” risponde pienamente a questa esigenza essendo stato costruito, così come la band, per questo scopo e per portare uno shock culturale in un paese come gli USA dove le minoranze soffrono di un disequilibrio di sistema molto evidente, oggi come allora e allora come oggi. Come in un effetto lenticolare, il medesimo disco assume un significato diverso a seconda di dove venga ascoltato. In Italia la connotazione razziale risultava meno forte per motivi oggettivi e di distanza, di conseguenza era meno forte anche lo shock portato dall’album stesso.

Trascinato al successo da Cult Of Personality e da un brano tagliente come Desperate People (omaggio ai Led Zeppelin), nel 1988 “Vivid” mette sulla mappa dell’hard rock mondiale una band il cui significato è radicato nel suo essere composta da musicisti di colore, che suonano una musica tipicamente destinata a un pubblico bianco, nonostante sia contaminata da stili di solito associati alla musica dei neri. Abbiamo influenze di rock caraibico (come in Glamour Boys, prodotto da Mick Jagger) e chitarre chiaramente ascrivibili all’eredità di Hendrix. Suoni funky alla George Clinton in Funny Vibe. Una più che godibile cover di Memories Can’t Wait dei Talking Heads e una coppia di canzoni d’amore – I Want To Know e Broken Hearts. E riff potenti e batteria che non smettono neanche per un attimo di segnare il tempo come in Middle Man e Open Letter (To A Landlord), e il canto potente e argentino di Glover che esplode in What’s Your Favorite Colour?, il canto dell’affermazione e delle dichiarazioni. Il tutto si conclude con Which Way To America … come faccio ad arrivare alla tua America? Il canto dell’esclusione da un paese non per tutti, di chi guarda la vita scorrere confinato al di là di un diner.

In definitiva? “Vivid” è un disco importante perché è uno dei capofila del genere crossover, un disco che nell’arco di undici pezzi fonde funk e rock in maniera sporca, tecnicamente impeccabile e che preannuncia l’arrivo di gruppi come Rage Against the Machine e Primus. È un disco importante perché è un tassello fondamentale per la comprensione di come la musica e il rock nello specifico mutino nel corso degli anni e in funzione di chi lo maneggia e di quale siano il suo background e i suoi scopi, nello specifico per la forza che porta con sé in difesa di una uguaglianza ancora non raggiunta.

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