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“The Eye Of Every Storm” dei Neurosis, la formula vincente del sottrarre

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Sono le undici passate e sono seduto in salotto col mio portatile, dalla finestra il bagliore grigio argenteo di un cielo ancora chiaro (qua al nord la notte in estate è praticamente inesistente) e l’aria umida di pioggia fresca mi ricordano che presto saranno sedici anni dall’uscita di un disco che come pochi altri marchierà a fuoco i miei ascolti musicali futuri.

Sarà l’argento delle nuvole serali che ricorda l’uragano in copertina e un’atmosfera rilassata e allo stesso tempo ancora pregna di tensione a suggerirmi l’ascolto di quello che è il lavoro più criptico, viscerale e intimo dei Neurosis. Un disco terribilmente difficile e complesso che imparai ad apprezzare solamente dopo lunghi ascolti finendo però per diventare uno dei punti cardine nella mia crescita musicale, esattamente come successe ai tempi dell’uscita di “Lateralus” dei Tool o di “Roots“, dei Sepultura.

Che siano state le esperienze soliste di Steve Von Till e Scott Kelly o una estrema maturità e libertà artistica il motore pulsante della creazione di un disco come The Eye Of Every Storm è difficile da dire, quel che è certo che mai come prima la band di Oakland si era spinta tanto in là.

Dopo aver riscoperto le proprie radici primordiali con “A Sun That Never Sets infatti i Neurosis si avventurano in quello che è il compito più difficile per un gruppo che ha fatto della viscerale pesantezza e dell’impatto la propria arma vincente: spogliare a nudo il proprio suono da ogni orpello non necessario e consegnarci un disco in cui la formula del “sottrarre” ne costituisce la spina dorsale.

Aiutati ancora una volta da Steve Albini (che firma qua una delle sue migliori produzioni), quello che ne esce è un commovente viaggio nei sentimenti umani, in cui tutto è sospeso al di sopra di un baratro spaventoso ed irraggiungibile. C’è una sensazione perenne di fragilità che rende ogni secondo di ascolto un tassello prezioso ed imprescindibile in cui il tempo viene dilatato tramite un approccio incredibilmente minimale.

La band non raggiunge mai infatti gli estremi di violenza e tensione dei precedenti dischi (nemmeno nelle voci stesse, che raramente si spingono verso territori di screaming), invertendo il modus operandi ed utilizzando spesso le parti più pesanti come vere e proprie aperture, lasciando ai momenti più minimali il compito di creare tensione.

Un esempio perfetto di questa sorta di chiaroscuro sonoro sono A Season In the Sky, la title track, con la sua lunga parte centrale caratterizzata da frequenze pulsanti, voce ed un uso sapiente del silenzio, e il crescendo di Shelter che culmina in un esplosione liberatoria.

Un discorso a parte va fatto per No River To Take Me Home, commovente preghiera alla Madre Terra nonchè uno dei picchi emotivi dell’intera carriera dei Neurosis e Bridges un’incubo di undici minuti in cui dissonanze acustiche e ambient vengono rotte da squarci di pesantezza drone, diventando l’unico momento veramente pesante ed estremo del disco.

Un viaggio impervio ben al di là di generi e catalogazioni, The Eye Of Every Storm rimane per molti versi il punto di arrivo definitivo della carriera degli americani che chiudono con un capolavoro l’evoluzione del loro percorso musicale che continuerà con altri tre dischi di altissimo.

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