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I Baustelle e “Sussidiario illustrato della giovinezza”: non indie, ma diversi

La scansione delle ere musicali non è mai un dato univoco e oggettivo, ma è idealmente l’unità di tempo trascorsa da un album, il “Sussidiario Illustrato della Giovinezza“, che pochi giorni fa spegneva la sua ventesima candelina. La dilatazione temporale esistente tra l’oggi e la realtà musicale nella quale si stagliava l’opera prima dei Baustelle, sostanzialmente, è nel contesto, che ha conosciuto una radicale trasformazione anche grazie al lento processo di sintesi col pop inseguito da diversi artisti di estrazione indipendente, un’operazione a cui i Baustelle sono tutt’altro che estranei e che ha anche forgiato la loro anima, mai troppo vicina a quella squisitamente indie, ma pure lontana da quella di colleghi in orbita major. Non indie, ma diversi, per dirla con lo stesso Francesco Bianconi. Non si tratta, quindi, di un album incapace di superare la prova del tempo: al contrario, lo status de il “Sussidiario Illustrato della Giovinezza” è ulteriormente accresciuto dal peso specifico che questo periodo gli ha inevitabilmente riconosciuto.

Il “Sussidiario Illustrato della Giovinezza” veniva descritto, pochi giorni dopo la sua pubblicazione, come quella musica di cui Bianconi stesso avvertiva l’assenza e, di conseguenza l’urgenza. Si inseriva in un panorama piuttosto arido al di fuori degli ambienti underground e nel circuito pop, riuscendo nella titanica impresa di risultare tutto sommato diverso e originale, pur nel suo niente affatto celato citazionismo. Le influenze, più o meno immediatamente riconoscibili, sono tante: i Pulp, leggermente ripuliti del loro afflato danzereccio e senza i quali, forse, questo disco non sarebbe mai esistito; la new wave degli anni Ottanta; il cantautorato di Serge Gainsbourg; la musica colta di Ennio Morricone; la cinematografia noir, addirittura tracce di exotica.

E poi c’è la scrittura, che danza con un’agilità disarmante fra cultura alta e bassa. Il “Sussidiario Illustrato della Giovinezza” non ha mai voluto essere un concept, ma trova nell’adolescenza il suo fil rouge. Il disco è un continuo rincorrersi di immagini profondamente evocative, dai colori ora vividi e ora sbiaditi, di citazioni, un ritratto contemporaneamente autobiografico e universale di quella giovinezza segnata da amori e ribellione, da masturbazione e droga, da tormenti ed erezioni. Ma anche da sogni, illusioni e ricordi immersi a tratti in un’atmosfera tanto intima da farsi pungente, conservando sempre un’intensità strabordante. In breve, quello de Il Sussidiario è un songwriting che scuote, seduce e strugge senza soluzione di continuità, che non concede cali di tensione dall’alba al tramonto.

A inaugurare l’album c’è un suono simil-videoludico, che anticipa l’ingresso di Bianconi, col suo timbro profondo e sensuale, e la conseguente cascata di suoni sintetici: è Le Vacanze dell’Ottantatré. Sarebbe un avvio fulminante per qualsiasi disco, ma lo è di più per un’opera prima. Il ritornello è fresco e adesivo, perfetto l’incastro fra le due voci, di Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi e le liriche, immaginifiche, passano per l’anafora dei c’era (una storia d’amore, un reggiseno / mentre lo slacciava, la straniera del mare), per un pullman che è ancora la corriera e radioline che segnano la pubertà. Martina e le sue piccole catastrofi per minuti intimi rappresentano le prime relazioni, favolose e ingenue, soffertissime, Sadik esplode in una coda psichedelica, dove i gemiti sullo sfondo sembrano danzare su archi e distorsioni delicate, mentre Noi bambine non abbiamo scelta è il singhiozzare straziante per un amore (pre)puberale finito male.

Arriva Gomma e con essa uno dei momenti più brillanti di tutto il disco: il ritmo si fa più sostenuto, il rimando a Common People dei Pulp è evidente, ma, soprattutto, Rachele Bastreghi esprime davvero, forse per la prima volta, tutto il suo potenziale canoro. Lo fa alternandosi regolarmente con Francesco Bianconi, in un gioco di contrasti che è anche di punti di vista, di personaggi che aspettano di incontrarsi (settembre spesso ad aspettarti e giorni scarni tutti uguali, e groppi in gola e secca sete di te) per sfuggire alla noia della provincia, evadere (se stereofonica posavo / d’imbarazzante giovinezza lamé, leccavo caramelle amare) e scoprire il sesso, in un crescendo che, prima di avrei bisogno di scopare con te passa per il ben più criptico (ma non troppo) potrei scambiare i miei Le Ore con te?, citando una rivista (realmente esistita) nata come cinematografica e culturale e divenuta poi erotica.

Gomma è seguita da altri due brani realmente folgoranti: prima La Canzone del Parco, poi La Canzone del Riformatorio. La prima gioca sulla sovrapposizione degli strumenti e su un ritmo acidulo e spezzato che si ricompone lentamente, cullando la voce maestosa e sofferta di Rachele Bastreghi, e raggiungendo la vetta in coda (a che cosa pensano / questi umani fragili / a che cosa servono / i miei rami stupidi / a che cosa servono / se mi lascio prendere / da pensieri inutili / posso solo esistere / in eterno vivere / senza avere gli attimi / degli amanti giovani), la seconda guarda invece ai Pulp di “Disco 2000” e canta il dolore lancinante per un amore infrantosi sulla dipendenza dall’eroina (amore fra cinque anni dove andrò? / e tu chi sarai e chi saremo noi / fuori dal riformatorio?), in un passaggio fra i più belli dell’album e (molto) probabilmente anche dell’intera discografia della band toscana.

Cinecittà è il dialogo fra un aspirante attore e una produttrice cinematografica filtrato attraverso un ritornello disincantato, che vede anche la partecipazione dell’attrice Camilla Filippi, Io e te nell’Appartamento un’istantanea di una scena di sesso addolcita da un altro refrain agrodolce e denso di atmosfera (ci prenderemo come i cani), prima che Il Musichiere 999, anche con un pizzico di ironia, ci “presenti” i Baustelle, fra speranze, sogni, ispirazioni varie ed eventuali.

Il “Sussidiario Illustrato della Giovinezza“, semplicemente, è uno dei dischi italiani più belli del suo periodo storico e della sua generazione, anche più di un semplice esordio (molto) fortunato. È la sintesi di diverse influenze, di una scrittura di grande qualità, in cui potersi anche immedesimare, ma anche il primo manifesto di un’estetica pop – tutto sommato – autentica, perché i Baustelle, allora come oggi, hanno imparato a somigliare, comunque, solo a loro stessi. E, per tutte queste ragioni, anche vent’anni dopo, non è tardi per innamorarsene.

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