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Orgöne – Mos/Fet

2020 - Heavy Psych Sound
prog / space rock

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Tracklist

Side A: Erstes Ritual

Side B: Soviet Suit
a/ Requiem For A Dead Cosmonaut
b/ Soviet Hot Dog (Le Tombeau de Laïka)
c/ East Song

Side C: Anubis Rising
a/ Ägyptology
b/ Mothership Egypt
c/ Rhyme Of The Ancient Astronaut

Side D: Astral Fancy


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Quella folle notte di inizio estate, quando le stelle rigavano gli oblò e la musica riempiva le orecchie.

I dischi non sono tutti uguali, quindi non possono e non devono essere trattati come se lo fossero. Alcuni sono leggeri e aulici, altri sono spessi e pesanti, qualcuno colorato, ma il più delle volte sono grigiastri. In pochi casi segnano un’epoca, più spesso sono consumabili da godere qui e ora. A volte sono scomodi, mentre se ben riusciti sono confortevoli e ariosi. “Mos/Fet è senza dubbio colorato, stratificato e sufficientemente arioso. Ma anche denso. Come uno di quei totem di legno a forma di tacchino, scolpiti con la motosega da un abile artigiano, che potete trovare nella campagna statunitense.

Per prima cosa, per godere appieno del suo ascolto, occorre mettersi in una situazione di comodità programmatica, usando per esempio una poltrona sacco. Fantozzi style. Realizzata in robusto materiale espandibile, la poltrona sacco si adatta al corpo dell’ascoltatore assecondandone la posizione di rilassamento più comoda. Riempita di micropallini di polistirolo da mezzo millimetro tipici dell’estetica hippy, è un morbido cuscino in grado di assumere una forma ideale, ed è particolarmente indicata nel caso di ascolto di musica astrocore, space rock, krautrock, acid-noise, psych’ stoner, progressive rock, intergalactic doom. Per l’ascolto di “Mos/Fet“, il disco degli Orgöne, la poltrona sacco è fortemente consigliata: perché COMODI DOVETE STARE!!!! Comodi per essere liberi di sognare e di farvi trasportare sulle dinamiche linee sonore che lanceranno la mente oltre le porte di Tannhäuser.

Come la si spiega questa musica? Parole, parole, parole e riferimenti, per allacciare tra loro i fili di mille discorsi e mille gruppi sospesi. Gli anni Settanta, i brani interminabili, le stratificazioni sonore e i concept album. E Diamanda Galàs e Nina Hagen. Lo stoner rock: salsa acida da aggiungere alle sessioni nel deserto, dove siete arrivati a bordo di una Chevrolet Impala rossa decappottabile, con alla guida un emulo di Richard Wright alle tastiere. E gli Stooges. E i Pink Floyd. E i Black Sabbath. E tutta la vostra attenzione per cercare altri innumerevoli citazioni e riferimenti.

La prima cellula del gruppo viene sintetizzata a Rennes nel 2015 dall’interazione tra il bassista Nick Le Cave e il chitarrista Marlen Stahl. Nel 2016 l’arrivo della franco polacca Olga Rostropovitch alla voce sancisce la nascita degli Orgöne. Nel 2018, con Allan Barbarian alla batteria e Tom Angelo alle tastiere (entrambi provenienti dai Djin che con gli Orgöne aveva diviso il palco), la band trova l’equilibrio corretto per fare quello che sentiva di dover fare: entrare in una giungla musicale complessa e pericolosa. Ecco la nascita di lunghe composizioni e improvvisazioni, discendenti dal prog rock in una dinamica continua di contaminazione e ricerca, sperimentazione e incursioni nei territori più disparati: dal deserto delle chitarre abrasive alla foreste lussureggianti dei sintetizzatori.

Il disco, il primo della band francese, è diviso in quattro movimenti da venti minuti l’uno: Erstes Ritual, Soviet Suit, Anubis Rising, Astral Fancy. Completamente autoprodotto, mescola in modo riuscito (e a tratti sorprendente) cultura pop, antico Egitto e panafricanismo, mitologia dell’URSS e della guerra fredda (un po’ come se la PFM giocasse a fare i CCCP). Come detto, musicalmente, si giova di molti prestiti dal rock degli anni d’oro, integrati da più recenti derive di musica mondiale. Il disco è sperimentale, progressivo, psichedelico e spaziale. Retrogrado, già sentito e kitsch (il cantato in russo, per esempio; sembra un Rasputin rabbioso che riemerge dalla Malaja Nevka per esigere vendetta). Eppure, mantiene sempre alto l’interesse e dopo i primi ascolti, diventa a mano a mano più interessante proprio grazie alla ricchezza di dettagli ed elementi, fino a quando a un certo punto ingloba l’ascoltatore nel mondo fittizio che evoca.

In Erstes Ritual e Requiem For A Dead Cosmonaut la voce di Olga Rostropovitch ha un ruolo primario, con un cantato gutturale ed evocativo. Soviet Hot Dog rivela il lato ironico del gruppo, visto che è dedicata a Laika, dopo il cosmonauta morto anche il cane. Ägyptology inizia come se a suonare fossero gli Stooges e termina come se un organo impazzito dominasse il mondo con una danza estatica multicolore. L’inizio di Mothership Egypt fa immaginare Tony Iommi alla chitarra, poi verso il minuto 3:00, il brano diventa un pezzo dei Pink Floyd: i suoni si liquefano e il tempo si dilata, finalmente si capisce il perché della poltrona sacco. E l’ultimo brano, Astral Fancy, inizia come una rallentata Love Missile F1-11 dei compianti Sigue Sigue Sputnik, per poi finire in una fantasmagorica rincorsa musicale.

Ora si potrebbe avere l’impressione che sia un’opera di nicchia, caotica e disarmonica, ma non è così. I  cinque a volte eccedono nell’entusiasmo della sperimentazione (ne è un esempio il video di Mothership Egypt / Rhyme Of The Ancient Astronaut), ma è un debutto ben riuscito. “Mos/Fet” è un disco che merita ascolti ripetuti e anche se non cambierà il corso dell’epoca musicale, permette agli ascoltatori di oggi di immergersi in suoni tipici di un’epoca nella quale la musica veniva considerata come un mezzo, uno strumento, un portale attraverso il quale la mente dell’ascoltatore collassava e l’universo si espandeva nella testa. Aggiornata alla modernità di uno stoner rock di qualità.

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