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Interviste

Trump, Morricone e il Blues: intervista a Homer Flynn (The Residents)

Il collettivo mascherato che risponde al nome di Residents esiste ormai da quasi cinquant’anni, ma la sua rilevanza è ancora oggi perfettamente intatta. Un’intervista con loro potrebbe apparire come un paradosso, come si fa a incontrare un gruppo “invisibile”? 

Abbiamo incontrato via skype Homer Flynn, presidente della Cryptic Corporation, società che dall’inizio degli anni settanta amministra e gestisce l’operato della band. Homer ne è anche il portavoce, pubblicamente è lui che parla al posto loro, per far sì che l’identità dei membri non venga compromessa. Durante la chiacchierata abbiamo affrontato con lui vari argomenti, primo su tutti il nuovo disco dei Residents, “Metal, Meat & Bone“, incentrato sull’altrettanto misteriosa figura del bluesman Dyin’ Dog.

Chi è Dyin’ Dog?

Beh, è una lunga storia. Quando i Residents erano agli inizi avevano un amico che li ha aiutati a muovere i primi passi nel mondo della musica. Quest’uomo si chiama Roland Sheehan. Roland arrivò dalla Louisiana nell’estate del 1970 e passò quell’estate con i Residents. Era un musicista e quando venne portò un furgone intero pieno di strumenti musicali. I Residents si erano appena procurati un registratore a cassette ed è stata la combinazione di registratore e strumenti musicali, insieme a un sacco di tempo libero, che ha permesso loro di cominciare a creare della musica. Finita l’estate Roland ritornò in Louisiana, e poco tempo dopo conobbe un tale di nome Alvin Snow, che scoprì essere un cantante blues davvero talentuoso, un personaggio molto interessante, e così iniziò a lavorare con lui. Registrarono alcuni demo insieme. Alvin era un grandissimo fan di Howlin’ Wolf, era un tipo davvero strano, e all’inizio del 1976 Howlin’ Wolf morì. Credo che in quel momento Alvin stesse vivendo dei momenti non molto felici in generale, ma la morte del suo eroe ebbe un impatto enorme su di lui, e così scomparve. Roland conservò i demo e dopo molto tempo, durante una chiacchierata un membro dei Residents gli rivelò che il gruppo avrebbe sempre voluto realizzare un progetto che avesse a che fare con il blues, ma che non aveva mai trovato il giusto pretesto per cominciare o la direzione da dare alla cosa. Roland gli disse di avere delle demo di un artista che nessuno aveva mai ascoltato, e che il materiale era molto interessante. Inizialmente i Residents guardarono la cosa con diffidenza ma dopo aver ascoltato i nastri di Roland cambiarono subito idea, e così decidettero di improntare il loro nuovo lavoro sulle canzoni di Alvin Snow; e come Howlin’ Wolf era lo pseudonimo di Chester Burnett, Dyin’ Dog lo era per Alvin.

È la prima volta che i Residents affrontano un genere come il blues, qual è il loro rapporto con questo universo musicale?

I Residents vengono dal sud, il blues viene dal sud e, loro potrebbero non essere neri (non vogliono che io dica chi o come sono), ma comunque sono cresciuti intorno a quella musica e nutrono verso di essa un grande amore. Inoltre hanno sempre amato giocare e misurarsi con varie forme di musica, adorano fare musica che si interroga sulla musica stessa e quindi, ad un certo punto, il blues ha fatto capolino nella testa dei Residents come una nuova sfida da affrontare.

Questo nuovo album prosegue il cammino iniziato con la Composers Series (una serie di album dove il gruppo ha reinterpretato classici di James Brown, George Gershwin, Hank Williams e altri autori) ?

Beh, il concetto è molto simile, c’è stato anche, tra le altre cose, un tour dedicato a Elvis, è sempre musica che parla di se stessa.

Durante lo scorso tour sono state suonate alcune canzoni appartenenti a questo progetto e, nonostante fossero i brani più “normali” in scaletta, in quel contesto sono sembrati i più anomali.

È un’interessante osservazione, questo progetto è in cantiere da diversi anni e suonarne delle parti dal vivo è stato importante per loro per vedere come le canzoni potessero prendere vita e quale sarebbe stata l’accoglienza del pubblico. Sono stati molto soddisfatti delle performance di quel materiale.

Riguardo al reinterpretare la musica altrui, so che una delle maggiori influenze musicali del gruppo è Ennio Morricone, sarebbe interessante ascoltare un album dei Residents a lui dedicato.

È interessante che tu lo dica, perché i Residents hanno sempre amato le colonne sonore, e specialmente Morricone, come anche Nino Rota. Ma allo stesso tempo credo che siano intimiditi dal misurarsi con questi personaggi. Hanno una grande ammirazione per la musica di Morricone, per il suo modo di combinare così magistralmente elementi e suoni più disparati. Forse un giorno decideranno di affrontarlo ma penso siano piuttosto spaventati da questo tipo di confronto.

All’inizio di quest’anno ha debuttato al MoMa la performance di “God in Three Persons“, un disco molto amato dai fan ma mai suonato prima dal vivo, con una produzione molto elaborata. Come è stato reso possibile tutto questo e cosa ne pensa il gruppo?

Loro sono davvero soddisfatti dello spettacolo. I Residents hanno sempre sentito, per ogni loro creazione, la necessità di farla evolvere, da album a spettacolo dal vivo e così via. “Freak Show” ad esempio, è nato come un disco, ma è diventato un libro a fumetti, un CD-ROM, un’opera per il teatro. Tra tutti i loro progetti, quello che più di ogni altro desideravano portare avanti, sviluppare e arricchire era “God In Three Persons“. Loro hanno un ottimo rapporto con il Museum of Modern Art e l’idea di questo show era nata già anni fa. La grande fortuna è stata essere riusciti a portare a termine tutto il lavoro appena prima del lockdown, in caso contrario staremmo ancora aspettando. Ciò che ha contribuito maggiormente allo sviluppo del progetto in tempi accettabili è stata la collaborazione con un video artist, un tale di nome John Sanborn, con il quale i Residents avevano già lavorato in precedenza. Lui è un artista riconosciuto e ben noto e il suo arrivo ha convinto definitivamente i curatori del MoMa, questo è l’elemento che ha davvero fatto la differenza.  C’è un grande interesse nel proseguire, i Residents sarebbero entusiasti di portare lo spettacolo in Europa, sono sicuri che avrebbero un ottimo responso da parte del pubblico ma, sai, la pandemia ha bloccato ogni cosa. Ci sono varie ipotesi e possibilità, una di queste riguarda un meraviglioso teatro a San Francisco, appena restaurato, in un’area chiamata The Presidio. Originariamente era una base militare, che è stata poi restituita alla città. All’interno della base c’era un teatro, dismesso da anni, ora di nuovo attivo. Fortunatamente il nuovo direttore del teatro aveva in precedenza incrociato il suo cammino con i Residents, all’epoca dello spettacolo “Cube-E“, trent’anni fa. Durante le prove di “God In Three Persons” in un piccolo club lui era presente e ne è stato molto colpito; ora stiamo organizzando una serata, o forse più di una, al Presidio, per il prossimo Halloween. Ma è ancora tutto in dubbio per via del lockdown. Un alternativa che stiamo considerando è quella di organizzare un broadcast online a pagamento. Si tratta di un grande allestimento, con molte persone coinvolte, e questo è il modo in cui può essere realizzato attualmente senza troppi problemi.

Un filo conduttore della produzione artistica dei Residents è la volontà di raccontare storie, di costruire universi narrativi e sviluppare in essi intrecci e personaggi più disparati, con un’efficacia sorprendente. Cosa significa raccontare una storia per loro? 

Io vedo i Residents fondamentalmente come storytellers. Agli inizi il focus era principalmente sulla musica, ma allo stesso tempo ogni canzone aveva dei testi, i quali mostravano il punto di vista di un personaggio che aveva una storia da raccontare. La sua storia poteva essere molto estesa ma la canzone apriva solo un piccolo spiraglio nel mondo di questo personaggio. Progressivamente è cresciuta sempre di più l’idea di espandere questi mondi, creare narrazioni più vaste, l’obiettivo è diventato quello di dare vita tramite un album a universi narrativi sempre più sfaccettati.

Un altro elemento caratteristico nella storia della band è la sua componente grafica e visiva, nella quale sono presenti numerosi riferimenti alla tradizione e alla cultura pop americana. Qual è il rapporto con il loro bagaglio culturale?

I Residents hanno un particolare rapporto di odio / amore con la loro cultura. La cultura americana è così folle, brutale, ingarbugliata; non puoi fare altro che amare tutta la follia che ne scaturisce. Ma d’altra parte questa follia ha generato anche gente come Donald Trump. È questo il fascino della cultura americana, questo essere senza capo né coda. E come i Residents amano fare musica sulla musica, amano allo stesso modo trattare e commentare la propria cultura. Non so se hai visto il loro ultimo video musicale, DIE DIE DIE, nel quale compare lo stesso Trump, che in pratica dice alla gente di morire! Ancora una volta, è il loro modo di assorbire e rivisitare ciò che hanno intorno.

Quindi anche l’attualità è una fonte di ispirazione…

Beh, l’America oggi sembra essere tanto folle quanto lo sia sempre stata, forse anche di più. Io sono cresciuto negli anni sessanta, un’epoca culturalmente e socialmente assurda, e onestamente non avrei mai creduto di vivere di nuovo un momento storico altrettanto, se non maggiormente paradossale. Sono tempi davvero strani, sfortunatamente il paese non ha una vera e propria leadership, qualcuno che possa farsi avanti e tendere una mano alla gente, aiutarla ad affrontare questi momenti difficili. Ora ognuno deve contare sulle proprie forze e sperare in un futuro migliore.

Oltre alla musica o l’attualità, tra le influenze dei Residents ci sono anche gli scritti di Kurt Vonnegut. Ci sono altri autori nel mondo della letteratura che sono stati influenti per loro? Ho sempre pensato ad esempio che i romanzi di Richard Brautigan potessero essere un perfetto contraltare alla loro musica.

Esatto, ma un altro autore che i Residents amano è Philip K. Dick. Li affascina il modo in cui partendo da situazioni normali e ordinarie le riesca a plasmare traslandole in una realtà totalmente distorta, molto lentamente. Il lettore si trova davanti qualcosa che appare normale in superficie ma che presto rivela le sue assurdità, e viene spinto sempre più in profondità, trovandosi di fronte alle aberrazioni nascoste dietro il quotidiano. Dick era un genio, la sua influenza è stata enorme, insieme a Vonnegut e la sua idea dell’assurdo.

I Residents hanno un rapporto molto stretto con il cinema, fin dalle origini, con la realizzazione (mai ultimata) di “Vileness Fats“. Nel 2018 è stata annunciata la lavorazione a un altro film, “Double Trouble“. Come procede il lavoro al momento?

Attualmente i Residents stanno riscrivendo la sceneggiatura, e ora “Double Trouble” è diventato “Triple Trouble“! La storia dietro questo film inizia con “Vileness Fats“. I Residents ci hanno lavorato dal 1972 al 1976 ma non sono mai riusciti a terminarlo. Il desiderio di utilizzare quel materiale è rimasto, e “Double Trouble” è nato per essere una rivisitazione del progetto originale, per riadattare gli elementi di “Vileness” in un nuovo contesto. Ma ultimamente il tutto sta venendo rimodellato una terza volta, ecco perché “Triple Trouble“. Ci sono le riprese originali degli anni settanta, il punto di vista di alcuni anni fa e il nuovo materiale, uniti insieme, le idee continuano a plasmare il progetto, ma comunque speriamo di poterlo far uscire nella prima metà del 2021.

Dalla prima tournée in poi suonare dal vivo è diventato un aspetto sempre più importante nella vita dei Residents. Come viene concepito e preparato un tour?

La verità è che ogni spettacolo creato dai Residents è diverso dagli altri, e viene ideato con priorità e obiettivi sempre differenti. Il primo è stato il Mole Show, era un progetto molto grande e ambizioso da portare in tour, e infatti fu un disastro totale sotto ogni aspetto. Erano troppo ingenui e inesperti allora, persero una grande quantità di soldi e si ripromisero di non andare mai più in tour. Ma sai, le cose cambiano, qualche anno più tardi arrivò un’ottima offerta dal Giappone. Al momento non avevano nulla di pronto, ma prepararono tutto in sei settimane, grazie soprattutto all’aiuto di Snakefinger [Philip Lithman, chitarrista e stretto collaboratore dei Residents scomparso nel 1987, ndr]. Questa volta, invece di creare il più grande show possibile, e replicare il fiasco del Mole Show, presero la strada opposta: mettere in piedi una produzione più scarna possibile, ma ugualmente efficace. Questo divenne il “13th Anniversary Show“, che riscosse un grandissimo successo. Ogni tour ha alla base una diversa attitudine. Il successivo è stato “Cube-E“, nuovamente scarno ma più esteso per quanto riguarda il concept e la rappresentazione. Negli anni novanta i concerti furono accantonati a favore di progetti multimediali come “Freak Show” o “Bad Day On The Midway“, ma nel 1999 i Residents tornarono sui palchi con Wormwood, uno spettacolo decisamente più complesso e ambizioso, basato sulle storie della Bibbia. Le coordinate si sono sempre spostate, seguendo le priorità del momento.

Quali sono i piani per il nuovo Dog Stab tour?

La cosa più importante di questo tour è portare in giro il nuovo album. Ma allo stesso tempo i Residents si sono resi conto che quando hanno tra le mani qualcosa di nuovo è sempre molto eccitante, c’è una grande energia e molto entusiasmo per le nuove strade che possono percorrere. A volte però ciò che è stimolante per loro non lo è allo stesso modo per i fan. Di solito il pubblico preferisce i vecchi dischi, avendoli ascoltati per molti anni. Il nuovo materiale è più ostico, non è ancora entrato in profondità. Perciò la decisione è stata quella di aggiungere una seconda parte del concerto incentrata su “Duck Stab“, un disco molto amato dai fan. Quindi Dyin’ Dog, Duck Stab, insieme formano Dog Stab!

Per l’album “I Am A Resident” il gruppo ha utilizzato registrazioni inviate da fan da tutto il mondo, rendendoli, a tutti gli effetti, parte della band. Questo mi ha fatto pensare al concetto dietro ai Residents, alla loro non-esistenza, che permetterebbe loro di non morire mai. È un’entità che esisterà per sempre?

La pongo il questo modo, il futuro è aperto. I Residents sono un concetto, un’idea, più di ogni altra cosa. Adorerebbero vedere questo concetto andare avanti perpetuamente nel futuro, ma per poter farlo accadere serve l’arrivo di qualcuno, una figura che possa incarnare perfettamente lo spirito di ciò che è stato creato ed espanso per… quasi cinquant’anni! Questo è fondamentale, deve esserci qualcuno in grado di portare avanti tutto questo, e attualmente questa persona, o queste persone, non ci sono ancora. Non significa però che non possano bussare alla mia porta domani. Come ho detto prima, tutto è possibile!

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