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“Parachutes”, l’esordio da urlo odiato dai Coldplay

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Negli ultimi istanti degli anni ’90, la città di Londra – e con essa l’intero Regno Unito – si trova davanti a un bel dilemma. Sta per finire un decennio, ma non uno qualsiasi: il 31 dicembre del 1999 termineranno anche il secolo e il millennio. Quale dilemma sono chiamati a risolvere i sudditi di Sua Maestà? Per caso vogliono sapere se i loro computer verranno colti dal millenium bug (quelli sì che erano problemi, altro che coronavirus!)? Forse stanno pensando un modo per sabotare le radio che trasmettono incessantemente Waiting For Tonight di Jennifer Lopez (che peraltro è una cover di un pezzo edito tre anni prima dalle 3rd Party)?

Nulla di tutto ciò. I britannici in quel periodo hanno un problema ben più grosso: manca un artista o una band da contrapporre agli yankees, che da oltreoceano sembrano aver trovato le contromisure alla dissoluzione del movimento grunge. Da quest’altra parte, gli Stone Roses sono ormai un lontano ricordo, i Verve e gli Oasis hanno appena esalato l’ultimo respiro e gli immensi Radiohead sembrano al momento poco rassicuranti.

In mezzo a questo frastuono, e a quello di una festa di matricole all’University College di Londra, quattro ragazzi si conoscono, iniziano a coltivare una bella amicizia e a condividere la passione per la musica. Proprio i Radiohead sono in cima ai loro gusti. Dei quattro uno solo è londinese: si chiama Jonny Buckland e suona la chitarra elettrica. Gli altri sono il bassista Guy Berryman – addirittura scozzese di Kirkcaldy – il batterista Will Champion da Southampton e il cantante, pianista e strimpellatore di chitarra acustica Chris Martin da Exeter.

Chris e Jonny hanno dapprima l’idea di fondare una boyband, i Pectoralz, nome poi mutato in Starfish quando al gruppo si uniscono stabilmente anche Guy e Will. Infine ecco Coldplay, nome non originalissimo perché scelto dopo che un amico comune, in procinto di fondare a sua volta una band, lo aveva scartato. Non ci sono eventi clamorosi intorno alla formazione del gruppo, né si raccontano particolari aneddoti sulle loro prime esibizioni dal vivo: trattasi di quattro ragazzi poco più che ventenni, che suonano insieme nei ritagli di tempo concessi dallo studio. Ciò che però ne decreta la fortuna in modo immediato e definitivo è una serie di intuizioni in grado di ribaltare in poco tempo gli stilemi del pop di matrice britannica.

Attenzione, non britpop: quello, come raccontano gli stessi protagonisti, è storia passata e a nessuno viene in mente – già a fine anni ’90 – di dar vita a revival di sonorità e tematiche simil-gallagheriane o tentare di imitare i redivivi Blur al fine di replicarne il successo. Paradossalmente, la più grande ossessione degli artisti britannici – vale a dire la musica proveniente dagli Stati Uniti – diventa l’ispirazione più importante di ciò che in seguito sarà definito post britpop.

Il grunge è morto? Niente paura, quei diavolacci di americani hanno già tirato fuori il coniglio dal cilindro. Senza uscire troppo dal seminato “alternative”, arrivano nuove fonti di ispirazione da giovani del calibro di Slint, Guided by voices, Pavement e Shellac. Il pop-rock britannico può quindi uscire – sembra una contraddizione, ma non lo è – da una connotazione troppo british, abbracciando uno stile musicale più incline alla contaminazione.

Tale lezione è colta al volo dai neonati Coldplay, che con “Parachutes” aggiornano in un sol colpo lo standard musicale made in UK, fermo con il freno a mano tirato ormai da almeno un lustro. Detto in termini pratici, Chris Martin e i suoi non sono i Beatles, in grado di spaccare in due la storia della musica di tutti i tempi dalla sera alla mattina. E nemmeno gli Oasis, che fanno parlare di sé (anche) per le scorribande familiari giù dal palco. Molto più semplicemente, i Coldplay sono la band giusta al momento giusto, ma con le dovute capacità di prendersi – e mantenere per molto tempo – la testa delle charts di mezzo mondo.

In “Parachutes”, e in tutta la discografia successiva dei Coldplay e degli artisti che a loro si ispireranno, non ci sono inni generazionali in cui una determinata categoria sociologica si identifica e sfoga i propri disagi. Nessun accenno a sperimentazioni sonore o pompose rielaborazioni di autori classici sotto forma di articolate suite. Al contrario, la ricetta è piuttosto semplice: incrocio tra elettricità e trame acustiche, tematiche intime e toni sempre distesi. Il tutto interpolato dalla camaleontica voce di Martin, che ben si destreggia tra croonering e falsetto, con tutto ciò che alberga nel mezzo. Più volte qualcuno ha azzardato – ma nemmeno poi tanto – un paragone tra la sua vocalità e quella di Jeff Buckley.

Il tema portante di “Parachutes” è la malinconia, il più importante trait d’union tra il post britpop e il nuovo filone alternative d’oltreoceano. Presi singolarmente, alcuni brani del primo lavoro dei Coldplay non sfigurerebbero in una compilation slowcore. Una malinconia che però non sfocia mai nella disperazione: tutte le esperienze della vita vanno vissute pienamente, anche le peggiori. Di conseguenza i testi sono scarni, quindi la scelta stilistica ricade non sulla didascalia sotto a un’immagine, ma sull’essenziale descrizione di uno stato d’animo, emozioni spesso solo accennate dall’autore: al contempo chiunque se ne può appropriare, fattore che rende i pezzi di portata universale.

La musica è avvolgente e languida fin da subito (Don’t Panic), ma soprattutto scorre continua e costante per tutto il disco. Ci sono i riff un po’ più saturi di Shiver, la dolcezza di Spies, l’andare vagamente swing di Sparks, il breve interludio (escamotage che nei dischi futuri tornerà spesso) di Parachutes, le introspettive High Speed e We Never Change, prima della chiusura – con tanto di ghost track – fissata da Everything’s Not Lost.

I due mini capolavori, inutile sottolinearlo, sono Yellow e Trouble. Tracce adiacenti, rispettivamente secondo e terzo singolo: si fa fatica a dare vent’anni ai due pezzi per come suonano ancora moderni e meritevoli di occupare un posto in classifica. Trainano un album – ribadiamo: d’esordio – in grado di vendere 2,7 milioni di copie nel Regno Unito e oltre 2 milioni negli States, una performance commerciale che lancia i Coldplay nell’olimpo del music-business mondiale. La nomination al Mercury Music Prize, il premio come miglior album ai Q Magazine Awards, un Grammy nella categoria alternative music e un Brit Award sono solo alcuni dei riconoscimenti ottenuti.

Nonostante il fatto che tutti – pubblico e critica – fossero concordi nel ritenere che “Parachutes” assomigliasse più a una bomba che a un paracadute fluttuante, la band non amò mai il disco: Martin lo definì un album terribile, confessando che ad ogni riconoscimento ottenuto tutti e quattro si riunissero allo scopo di pensare a un nuovo disco in grado di cancellarne il ricordo. Detto fatto: poco più di un anno dopo esce In My Place, singolo di lancio di “A Rush Of Blood To The Head”.

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