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Back In Time

“Berlin”, l’abito più bello di Lou Reed

– Sick Boy: Beh, a un certo punto ce l’hai… poi lo perdi. E se ne è andato per sempre, in ogni stadio della vita. Georgie Best, per esempio, ce l’aveva… e l’ha perso. O David Bowie, o Lou Reed.
– Mark: Lou Reed ha fatto cose da solista niente male…
– Sick Boy: Sì, non sono male, ma neanche grandiose no? E in cuor tuo lo sai che anche se ti suonano bene in effetti sono solo… cagate!

Spero conosciate il dialogo qui sopra o che vi ricordi qualcosa. Per trafugare ogni dubbio, è Trainspotting. Sick Boy aveva una teoria per ogni cosa e probabilmente questa era la sua più nota e sentita, l’“unificante teoria della vita”, che non risparmiava nemmeno il suo amato Lou Reed. In effetti la sua carriera solista non ha niente a che vedere con gli album dei Velvet Underground o meglio, dei primi due. Dall’omonimo album in poi, Lou si libera da quel “peso” di John Cale ed è libero di suonare il cazzo che vuole, senza sperimentazioni, senza viole, riverberi e casini vari. Lewis ha sempre desiderato suonare qualcosa che si avvicinasse al cantautorato, qualcosa di “semplice” che gli permettesse di esprimere altri casini, quelli che aveva in testa. Lewis era il contrario della musica da lui creata, creando il contrasto per eccellenza. Già da adolescente fu subito marchiato come pecora nera; le sue manifestazioni di bisessualità non erano per nulla gradite e fu sottoposto a diverse terapie di elettroshock.

Immagini e racconti che sono diventati marchio del suo essere artista, già narrati con i Velvet Underground accompagnati dall’inferno musicale creato per lo più da John Cale e successivamente narrati in modo semplice, crudo, diretto, da solita. Immagini che “semplicemente”, sono state presentate al meglio in “Berlin“.

Me ne fregava solo della musica, mi interessava solo quello. Ho sempre creduto di avere qualcosa di importante da dire, e l’ho detto. È per questo che sono sopravvissuto, perché ancora credo di avere qualcosa da dire. Il mio Dio è il rock’n’roll. È un potere oscuro che ti può cambiare la vita.

Nessuno ha mai tirato fuori tanta oscurità da questo potere come ne ha tirata Lou e nessuno riuscirà a darne lo stile come ha fatto Lou. Se qualcuno mai dovesse farlo, rimarrà sempre lontano anni luce da lui. Il potere oscuro raffigurato in Berlin” è dei più forti, è il miglior affresco di quello che è stato l’artista Lou Reed.

E pensare che poteva cavalcare benissimamente l’onda del successo di Transformer ma no, aveva qualcosa di importante da dire e decise di spezzare quell’onda e produrre un lavoro lugubre, dalle ambientazioni e tematiche cupe (non che Transformer” fosse un album da passare alla Melevisione). L’album nasce dalla domanda del produttore Bob Ezrin, “che fine fa quella coppia della canzone del primo album, Berlin?”. Lou decise di accontentarlo sfornando un intero (concept) album, dove parla dell’amore di Jim e Caroline fatto di droga, violenza e depressione, con sfondo la Berlino degli anni ‘70. Conseguenza? Un probabile esaurimento nervoso di Bob Ezrin e la bollatura di “disaster” da parte di Rolling Stone.

Quello che fa “rabbrividire” è la semplicità con la quale viene narrato il tutto fino al ribaltamento drastico, con il precipitare che si verifica verso la fine di Oh Jim. Fino a quel momento, sembra quasi tutto bello. Eppure in Caroline Says I c’è una Caroline che dice “Jim non è un uomo ma solo un giocattolo” e andrà a divertirsi con gli uomini dei bar frequentati in Lady Day dove si diverte a cantare e consumare le sue merende preferite. C’è How Do you Think It Feels, dove Caroline prende la decisione di prostituirsi per non rimanere mai senza merenda. Per arrivare ad Oh Jim, dove delle trombe sornione fanno presagire un ambiente gioioso, ma altro non sono che un tappeto alla violenza di Jim su Caroline.

Fine del “bello”, nel finale una stanca Caroline dice con voce sommessa “how could you treat me this way” e dà il via all’oblio. Sarà il momento di enfasi da scrittura, il mio sconfinato amore per Lou, ma la potenza trasmessa dalla successione Caroline Says II, The Kids e The Bed ha pochi eguali nella storia della musica.

Sick Boy sicuramente esagerava nel dire che Lou Reed solista avesse fatto cagate da solista. Quello che voleva dire è che “Transformer“, “Street Hassle“, “New York“, sono sì album belli ma non eccezionali. Nessuna Venus in Furs, nessuna Sunday Morning, nessun delirio alla Sister Ray.

Berlin” invece, è un album eccezionale, il capitolo più luminoso della carriera da solista di Lou Reed. Brillava di luce propria, tale da non essere considerato appena uscito, rivalutato solo allo scoccare del nuovo millennio. La sua luce emanava malattia, amore tossicodipendente e Vicious, quel tipo di amore che poteva essere considerato solo in un modo: “disaster”. La sua luce non erano gli arrangiamenti o i ritornelli, era l’abito che aveva cucito Lou.

Lou è stato il sarto migliore, le sue canzoni possono anche sembrare “cagate”, non avranno riff memorabili o ritornelli ossessivi, ma i loro abiti, erano stupendi. E “Berlin” è stato il più stupendo tra gli stupendi.

P.S.:
Lou Reed con i suoi abiti musicali e non, con il suo volto truccato, con i suoi “vizi”, paranoie, ha portato la decadenza nella musica.
Lou Reed, è il più grande punk di sempre.

Lou Reed è la persona che ha dato dignità, poesia e una sfumatura di rock’n’roll all’eroina, alle anfe, all’omosessualità, al sadomasochismo, all’omicidio, alla misoginia, all’inettitudine e al suicidio.
-Lester Bangs

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