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Taylor Swift – folklore

2020 - Republic
pop

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Tracklist

1. the 1
2. cardigan
3. the last great american dynasty
4. exile (feat. Bon Iver)
5. my tears ricochet
6. mirrorball
7. seven
8. august
9. this is me trying
10. illicit affairs
11. invisible string
12. mad woman
13. epiphany
14. betty
15. peace
16. hoax


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Ammettetelo: chi di voi avrebbe messo su un disco di Taylor Swift se non ci fosse stato il nome di Aaron Dessner? Ben pochi, se non nessuno. Nemmeno io. E a me i The National nemmeno piacciono. Figurarsi Taylor Swift, che nell’ondata delle nuove “starlette” post-Gaga (si potranno ancora chiamare così senza finire alla gogna?) non è di sicuro una delle mie predilette, anzi, proprio non la digerisco (se devo scegliere, scelgo Ariana Grande, perché miss Germanotta è ad altri livelli).

Quindi, cos’è questo “folklore” se non la versione taylorswiftiana di quello che fece proprio Lady Gaga con “Joanne” o “Man In The Wood” di Justin Timberlake (un altro folgorato sulla via dei Bon Iver), senza la classe e l’intensità di quei due album. È una facade bella e buona, costruita a tavolino per attirare un pubblico “altro” rispetto a quello solito di colei che, a inizio carriera, venne messa in imbarazzo live da Kanye. Se il suo pop classico è debole, il suo lato “folk” non solo non è all’altezza dei suoi album precedenti, ma nemmeno ad uno accettabile. È ancora pop, punto e basta, ma travestito di tutto punto. Qualcuno ci cascherà? Sono pronto a scommettere di sì, e a fine anno la vedremo battersi con Fiona Apple per i posti alti delle classifiche più IN. Perdendo inevitabilmente, mi viene da augurarmi, anche se “Fetch The Bolt Cutters” mi irrita, e non poco.

Insomma, né la presenza di Dessner né tantomeno quella di Jack Antonoff riescono nell’impresa di migliorare qualcosa di tale pochezza, e quest’ultimo è l’uomo dietro a “Norman Fucking Rockwell!”, un album che, almeno musicalmente, non è valido, di più. In pratica il titolo è una bait, di folk non c’è nulla. Prendete ad esempio exile, brano in cui a prestare la voce è Justin Vernon, un duetto senza sugo, super pop e plastificato, in cui nemmeno la voce cavernosa del titolare di casa Bon Iver è in grado di fare la differenza, anzi, rende il tutto più imbarazzante che mai. Il concetto è ancor più chiaro esaminando la scrittura dei brani: my tears ricochet e the last great american dynasty non presentano alcuna distanza intrinseca, eppure il primo è a firma della sola Swift, mentre il secondo un tandem con il leader dei The National, entrambi sono singoli buoni per l’heavy rotation di Radio 105.

Pallidi tentativi di tirare in ballo generi più edulcorati si riscontrano nella minimal mirrorball, un folk-country anni Zero flebile che non sfigurerebbe nell’album reunion dei Bee Hive, così come le pianocentriche mad woman, hoax e seven o le pop-countryieggianti invisible string, illicit affairs e august, con quelle fastidiose chitarre acustiche in accompagnamento ad un cantato che vorrebbe stazionare tra l’elegiaco e il toccante ma che invece paiono ottimo materiale per il Disney Club. Cardigan e this is me trying vorrebbero essere pezzi che si vestono di elettronica altolocata, ma finisce in picchiata nel mare della scontatezza. Credo non fosse questo il fine ultimo della triade Swift-Dessner-Antonoff, eppure è esattamente ciò che hanno ottenuto.

Vocalmente siamo a flatland, un luogo ameno fatto di noia e nessun tipo di picco, né in positivo né in negativo, con Taylor che non fa trasparire né l’ennui estremista di Lana Del Rey, né l’ammiccamento furbesco (e per chi scrive assolutamente insopportabile) di Billie Eilish, è solo una popstar dalla voce laccata che gioca in campionato non suo. Se aggiungete anche l’uso smodato di archi e cori, vi renderete conto di quanto in basso si possa andare provando a trasformare un prodotto radiofonico in qualcosa di più edificante e profondo. Un fallimento assoluto.

Non basta una copertina in bianco e nero con tanto di foresta a portare in superficie un certo tipo di sentimenti, bisognerebbe essere in grado di scriverli, esprimerli mettendoli in musica. Sarà comunque un successo, poiché “folklore” è, a pieno titolo, l’album che permetterà al pubblico “indie” di ascoltarne uno pop senza doversi vergognare e tirando in ballo astrusi accostamenti, quando basterebbe ammettere che il pop piaccia e neppure poco, al di là di quanti libri di Sartre o Burroughs uno ha letto.

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