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WHAT’S MY AGE AGAIN?: la gioventù ai tempi del pop punk

Quelli che stiamo vivendo sono gli anni in cui noi non-giovani, nati indiscriminatamente tra il 1980 e il 1989, ci ritroviamo a ripescare – non sempre volontariamente – in qualche cassetto che avevamo accuratamente sigillato sul finire degli anni della nostra adolescenza, senza dimenticare dove abbiamo nascosto la chiave. Hai visto mai che un giorno ci sarebbe servita.

Ed eccoci qua a tirarla fuori da un altro cassetto ancora, pieno zeppo di chiavi, pronti a riportare alla luce quello che un tempo trattavamo come non di troppo conto ma che, con gli anni, ha acquisito importanza. Perché? Per ognuno è diverso. Lasciamo spesso l’oggettività guardare altrove per lasciarci portare al largo dai ricordi, il che ci rende spesso ciechi, ma ci porta a porci anche svariate domande, tipo “Come mai al tempo non badai così tanto ad un certo disco, dando più peso ad un altro?”, cosa che troppe volte ci ha spinti a fargli scambiare il posto, quello che un tempo adoravamo oggi ci fa quasi cagare, mentre l’altro lo rimettiamo su godendone.

Questa storia comincia con l’avvento delle commedie americane sconce, in cui ragazzi della nostra età, o poco più grandi (il nostro futuro in avvicinamento) affrontavano la propria adolescenza, per l’appunto, con il fare di chi tra un orecchio e l’altro può sentire soffiare il vento. Scanzonati, diremmo, idioti, sarebbe meglio definirli. Assieme a questa ventata di stupidità fine a se stesso, di boutade da zero comico assoluto, di sesso mai così poco celato, di pruriti che non ci vergognavamo più di nascondere. A volte, tra un libro di Dostoevkji, Camus e Chomsky e un album dei Mr. Bungle era pure bello fare schifo, punto e basta. Non che questo squalificasse in toto ciò che eravamo sul serio, la nostra serietà, l’impegno politico o altro. Una pura e semplice valvola di sfogo gretta e sporca. In questo contesto nasceva e cresceva il pop punk.

Il genere mutuava e faceva suo tutto ciò che l’hardcore punk prima e quello melodico poco dopo avevano creato, aggiungendo quella nota da pellicola di quart’ordine che mancava a tante band, oltre lo skate punk e la sua retorica della vita su rotelle e tavola, pur prendendone in prestito tanto e atterrando nei cuori dei fan di Tony Hawk, prendendosi per il culo come mai prima di quel momento, e come bonus una dose estrema di ritornelloni leccaculo e ammiccanti, una roba da fighetti, loser ma pur sempre fighetti, che prima o poi sarebbe sfociata in altro, anche nel mettersi dalla parte dei carnefici.

Quante volte si è sentito dire che il pop punk non era vero punk, che non si potevano accostare gruppi come Blink-182 e Green Day a realtà come quelle dei Sex Pistols o gli Stiff Little Fingers. Errore. Vi immagino già, a strapparvi i capelli e cercare il vostro spillone per infilzarmi, ma a meno che non stiate parlando di anarchopunk, crust o le derivazioni più radicali dell’hardcore tra il punk ’77 e quello adornato dal termine “pop” intercorre davvero poco. Forse solo Crass, Chumbawamba, Zounds e Discharge potevano permettersi di dirlo dei propri predecessori, ma i fan di Joe Strummer e John Lydon proprio no. Il punk portava in dote una dose di cazzonaggine e anarchia pop che nulla aveva a che fare con l’attivismo politico vero e proprio, fatto di proteste come Stop The City o di antimilitarismo e disarmo nucleare, di azioni animaliste e dischi che erano manifesti politici nel vero senso del termine.

Quindi, siamo proprio sicuri che il pop punk non sia vero punk? La risposta è chiaramente no. Certo, oggi Lydon dice di guardare alla band di Billy Joe Armstrong ridendone a crepapelle, ritenendoli inoffensivi (e ha ragione da vendere, manco a me piacciono), ma lo stesso fece Penny Rimbaud con lui. Di questo però il fu Rotten non parla, gli conviene. Ognuno ha la sua nemesi e, come diceva il saggio Bud Spencer: “Vedi amico, nella vita c’è sempre qualcuno più forte di te.” E questo vale anche per l’alfiere dell’anarchismo farlocco in UK.

Certo, di “vero punk” qui non c’è nulla, se non il genere, ma quella dose letale di spensieratezza e prankesterismo, ma finalmente libera dalle imposizioni della casacca griffata dalla A cerchiata, libera di esprimersi in maniera tanto effimera quanto spassosa senza temere l’heavy rotation, senza che nessuno potesse dire “vi siete svenduti!”, cosa che capitava un giorno sì e uno anche in determinati ambienti (l’esempio eclatante dei fan dei Metallica della prima ora che sbiellano all’uscita del “Black Album” è un ottimo esempio), senza moralismi, liberi di essere dei grandissimi “giovani coglioni”. Chiaro, forse definire Avril Lavigne punk, anche col suffisso pop, è forse eccessivo, ma tanto chissà quanti di voi si sono soffermati sul video di Sk8ter Boi e Losing Grip? D’altro canto quanti di voi sanno che su “Let Go” suona pure Josh Freese, che del pop punk fu pioniere coi suoi Vandals? Potreste dirmi “eh, ma lui è un session man di professione!”, sì, avete pure ragione, ma che diamine, io ci scommetterei dei soldi sul fatto che gli sia piaciuto suonarci.

Dunque, dopo tutto questo parlare, vi do il benvenuto in questo viaggio a ritroso nella parte più cazzona del punk, quella della mia generazione, e della quale non c’è proprio un cazzo di cui vergognarsi. D’altro canto, alla faccia di Lydon, Iggy Pop chiamò sia i Sum 41 che i Green Day alla sua corte per registrare un album. C’è qualcuno più punk di lui? Non credo proprio, di certo non l’ex frontman dei Pistols, con sua buona pace.

Nota: un solo disco per band, giusto per rendere le cose più complicate e divertenti.

Blink-182 – Take Off Your Pants And Jacket (2001)

Davvero pensavate avrei inserito “Enema Of The State” solo per la mia scelta di titolo e copertina dell’articolo? Ebbene no, sarebbe stato troppo facile. E poi “Take Off Your Pants And Jacket” non è più frutto del caso, la fama va riconquistata e le canzoni scritte con la stessa strapotenza del proprio bestseller per essere davvero pop. E i Blink non solo ce la fanno, ma si surclassano e piantano un chiodo nella futura bara del genere. Oltre questo punto il nulla, anche per loro stessi. C’è tutto qui, dal concept sulla vita dei teenager, alle tensioni interne alla band, ai video demenziali (First Date è un capolavoro), una produzione che suona moderna pure oggi (quella di “Enema” molto meno) e una resa strumentale che per il genere è inusitata, merito anche di Barker che è ormai alieno tra i comuni esseri umani che si abbassano i pantaloni e lo ficcano. E poi c’è la hidden track Fuck A Dog. Null’altro da aggiungere, vostro onore.

Sum 41 – All Killer, No Filler (2001)

“I Sum 41 sono i NOFX canadesi”. Non l’ho mai sentito dire, ma avrei voluto, perché le similitudini tra la band di Deryck Whibley e quella di Fat Mike sono parecchie, a partire dalla velocità media dei brani inclusi nel loro debutto al fulmicotone. Ma c’è altro da queste parti, perché i quattro sembrano attratti anche dai Beastie Boys, come dimostra la rappusa Fat Lip (della quale conservo ancora il CD singolo, e pure gelosamente) che fonde pop punk ai botta e risposta del trio newyorkese, una sonora dose di schitarrate dal gusto metallico (Pain For Pleasure è ridicolmente heavy metal) e una serie di anthem immortali.

The Offspring – Americana (1998)

Ero tentato di inserire “Ixnay On The Hombre” ma è vero che quel disco stava solo gettando le basi per costruire un ponte tra l’hardcore degli esordi e quello che sarebbero stati (catastroficamente) gli Offspring. È con “Americana” che la band di Dexter Holland assaggia il nettare del pop e comincia a scrivere come vecchi punk scafati che vogliono scalare le vette delle chart. E lo fanno, arrivano all’Olimpo senza svendere del tutto il proprio passato ma infilandoci di tutto, e così Pretty Fly (For A White Guy) e Why Don’t You Get A Job finiscono nelle compilation estive poppettare, i fighetti scoprono il punk e non lo sanno, MTV li ingloba e non li molla più. Il mio pezzo prefe di sempre però rimarrà She’s Got Issues. A loro sì che ho sentito gridare “venduti!” e mi sa che a ‘sto giro non c’è nulla da ridire.

Green Day – Warning (2000)

L’ho già ribadito nell’introduzione: io i Green Day non li ho mai digeriti. Non è però pensabile redigere un articolo su questo genere e tenerli fuori, perché ne sono stati tra i primi e più importanti portabandiera. Quale disco scegliere? L’unico che mi piace sul serio, ovvero “Warning”, quello della svolta, che fonde pop punk ad una fase adulta che non arriverà mai ma che qui ci insegna come il genere possa essere maturo e affrontare temi altrettanto adulti. Un disco che si apre con una title track a trazione folk e che spegne tutte le voglie elettriche dei kids ma che diventa, in pochissimo tempo, un gargantuesco manifesto, così come Minority e la bellissima Misery. Purtroppo l’evoluzione si fermerà qui e oggi i Green Day sono una barzelletta, che quasi quasi mi spiace dar ragione a Lydon.

Vandals – Hitler Bad, Vandals Good (1998)

Dite quel che vi pare, ma questo è, a pieno titolo, il disco pop punk dei Vandals, che il genere lo hanno praticamente creato assieme ad un paio d’altri hardcorer melodici svitati, ma mai quanto Quackenbush, Fitzgerald, Freese ed Escalante. Se i Devo facessero punk rock suonerebbero come i Vandals, e infatti Bob Casale li ha prodotti qualche anno prima, qui i Nostri finiscono su Nitro, l’etichetta di Holland, e lo stesso Dexter compare come penna su Too Much Drama. Il resto sono melodie super catchy, testi dalla fortissima connotazione demenziale e un sacco di chitarrazze punk rock. Il titolo poi è pazzesco.

Zebrahead – Playmate Of The Year (2000)

Che bestie strane, gli Zebrahead. Anzitutto non ci provano nemmeno a nascondere qualsivoglia messaggio che non sia l’ignoranza meno sottile, poi nel loro pop punk infilano influenze nu-metal grosse come case, fungendo da infiltrati nel genere e diventando un unicum (che poi li produce Howard Benson, che appena due anni prima stava dietro al mixer dei Sepultura). Questo disco oggi non uscirebbe, bollato per ogni possibile motivo sessista, ma onestamente chissenefotte, è uscito vent’anni fa, e ringraziamo. Il video della title track ci ha tenuti svegli la notte, io ho la mia santissima copia originale e lo sparo a cadenza annuale a volumi criminali, e potente com’è, coi suoi chitarroni giganteschi e le batterie pestone fa tremare le finestre.

Jimmy Eat World – Bleed American (2001)

PAZZESCHI. Tutto maiuscolo, perché bisogna rendere l’idea. I Jimmy Eat World sono i figli minori del Dio maggiore del post-hardcore, capaci di tirare lamate impietose in una pioggia di coltelli elettrificati, cori immensi e ritornelli a presa rapida impregnati di una serietà che li pone al limite esterno di questa galassia. In cui stanno, perché i giri di chitarra, gli arpeggi e la voce di Adkins è qui che va a pescare. “Bleed American” è un caposaldo intergenere, capace di bruciare tutto ciò che lo circonda con le sue melodie agrodolci e crepuscolari.

The Get Up Kids – Something To Write Home About (1999)

Restiamo in tema post-hc, perché coi The Get Up Kids è da lì che arriviamo. Se “Four Minute Mile” è stato una delle punte di diamante del genere, con tanto di Bob Weston alla produzione, è solo col successivo “Something To Write Home About” che la band si è ritrovata alle prese con la scrittura propria del pop, coi ritornelli e tutto il resto. Certo, qui da ridere non c’è un cazzo, poiché Pryor e soci vanno a toccare quelle corde dolorose che se ne stanno sopite fino ai giorni di vacanza, tra un anno e l’altro di scuola, in attesa che il freddo torni a divorarci e con esso tutto ci si riversi addosso come merda.

Weezer – Pinkerton (1996)

I Weezer? E perché no? Il secondo album della banda di scalmanati capitanata da Rivers Cuomo ha dato più di quanto si creda al genere in oggetto. No? Ascoltate bene il ritornello di Getchoo, leggete il testo di Tired Of Sex (e canticchiatevela in testa), sbarellate sulla zuccherina The Good Life e fatevi portare via dal grunge scarico di Why Bother?, che si trasforma in cazzonata potente nel giro di poco e niente, poi ditemi che ho torto.

New Found Glory – Sticks And Stones (2002)

Ci sono band che più di altre hanno infilato la testa sotto l’acqua gentilmente versata in un catino dai dirigenti di MTV, e tra questi sicuramente figurano i New Found Glory. Se anche voi avete sognato di combinare una sequela infinita di stronzate da high school a stelle e strisce, certamente lo avete fatto ascoltando questo disco a dir poco perfetto. Non c’è un riff fuori posto, non una linea vocale sbavata o un suono scoordinato. Tutti i brani sono papabili hit, ma è My Friends Over You che sbanca il botteghino e li fa schizzare nello spazio. Oltre alla comparsata nella colonna sonora nel secondo capitolo della serie di film “American Pie”.

Goldfinger – Open Your Eyes (2002)

Qualche mese fa mi è capitato di beccare il video della versione lockdown di Spokesman e mi è tornato in mente quel discone che è “Open Your Eyes”. Saranno stati più di dieci anni che non lo ascoltavo e l’ho rimesso su e mi ha portato via. Sostanzialmente è il classico disco pop punk ma, a differenza di molti altri suoi fratelli, questo ha muscoli da vendere e un’anima melodic hardcore scintillante e feroce, perfetta per chi va a schiantarsi con lo skate (non il sottoscritto, mai stato capace) e per recuperare un po’ di quella voglia di lotta che non si trovava su altre frequenze.

Box Car Racer – Box Car Racer (2002)

Inevitabile che la storia di questo genere passi dai membri dei Blink. Ad un certo punto Travis sembra che abbia preso da parte DeLonge, fino a quel momento sordo a qualsiasi altro genere se non quello che suonava, cacciandogli in mano i dischi dei Fugazi e dei Refused, obbligandolo ad ascoltarli. Eureka. Nascono così i brani che andranno a formare questo disco pazzesco. Scuro, potente, privo di tutta la deficienza della band madre, temi profondi (per uno che fino a poco tempo prima parlava scriveva porcate senza soluzione di causa ogni due per tre). Una furia oscura che si abbatte sull’ascoltatore, con i due in stato di grazia. Hoppus non sembra gradire e…

+44 – When Your Heart Stops Beating (2006)

…gli ci vorranno altri quattro anni per fondare i +44. I Blink ormai andati, e Mark e Travis si sentono però in dovere di portare a compimento quanto iniziato sull’ultimo album della propria band, e senza DeLonge tutto risulta molto più semplice. “When Your Heart Stops Beating” è un disco dal languore new wave, in cui il punk fa da contraltare e il pop è solo un’arma di ripiego. Il bassista può infine darci dentro con tutte le melodie che vuole dimostrando che tra i due quello con i numeri e le idee è lui. Ed è vero. A lui nessuno ha dovuto dare gli album dei Cure per trovarci l’ispirazione, ha fatto tutto da solo. Il risultato è delizioso, e resta uno dei miei preferiti di sempre.

Alkaline Trio – Good Mourning (2003)

Come un tempo accadde a T.S.O.L. e Damned, di rendere oscura una musica non proprio gloomy, così gli Alkaline Trio si addentrano nelle ombre al sole delle estati in skate, su e giù per le rampe, e buttano nel cesso i DVD di “Road Trip” e “American Pie” e si fanno sotto con Stephen King e compagnia briscola. “Good Mourning” è materia darkpop, che dal punk prende gli strumenti per affilare le armi e brucia tutto in un fuoco nero. L’ambiente è cimiteriale (sì, ma tipo “Buffy”, ma non per questo meno cool) e se Keith Morris decide di metterci l’ugola qualcosa vorrà dire. Ah, oggi, purtroppo, Matt Skiba ha preso il posto di DeLonge nei Blink-182. Io ve l’avevo detto che ‘sta storia gira tutta attorno a loro nel bene e nel male. Molto male.

Brand New – Your Favorite Weapon (2001)

Prima di fare il salto di qualità, i Brand New tenevano un piede in due scarpe. Da una parte la furia tagliente dell’hardcore più evoluto, dall’altra melodie colleggiali, a briglia sciolta, che non avevano nulla della profondità che assumeranno nel giro di un disco. Sarà la gioventù e l’innocenza che si porta appresso, ma i ragazzi di Long Island nella loro veste pop punk ci stavano da Dio.

Fall Out Boy – From Under The Cork Tree (2005)

Ci sono band che sembrano disegnate per il successo. I Fall Out Boy sono una di quelle. Ma come è vero che l’esplosione era lì lì per arrivare, è anchesì vero che l’ispirazione non è durata granché. Quando la band compone e incide “From Under The Cork Tree” il serbatoio è ancora pieno. Mentre i suoi sodali pestano come fabbri Stump inanella una dietro all’altra melodie vocali pazzesche, chorus atomici e testi teenageristici d’antan. Che gioiello. Non fosse che hanno influenzato in malo modo tutta una successiva di generazione di poppunker, forse gli vorrei pure bene.

Saves The Day – Through Being Cool (1999)

La copertina di “Through Being Cool” è l’emblema di tutta la “scena”: cinque ragazzi annoiati in mezzo ad una festa del college. Fingiamo che questo tipo di musica fosse il più gettonato proprio in queste feste, e ci siamo. Musica da loser, acre, e folgorata dall’avvento dei Weezer, col punk sempre più sullo sfondo e l’emo a galoppare frenetico sulle melodie, ora più sbarazzine, ora poco più profonde.

Taking Back Sunday – Tell Your Friends (2002)

Ecco qui un’altra bella compagnia di ragazzotti a cui è andata di traverso tutta la scena post-hc ed è ancora lì, a pesare sullo stomaco, e meno male, perché i Taking Back Sunday con il loro emopunk arioso e figlio diretto dei Sunny Real Estate e di certe cose leggere dei Glassjaw incidono qualcosa di valore.

My Chemical Romance – Three Cheers For Sweet Revenge (2004)

Tra i più odiati dell’epoca, i My Chemical Romance invece erano quelli che più spaccavano il culo. Li odiavo anche io, ma negli anni ho capito che il loro secondo album è una piccola perla. Sotto la patina pop ci sono tirate belle forti e sentite, un sentimento teen più romantico che divertissement. È l’exploit della tremebonda moda emo di metà anni Zero. Eppure l’album spacca. Peccato il contorno.

The Ataris – So Long, Astoria (2003)

Finiti sotto le luci della ribalta per la cover di The Boys Of Summer, rimasta nella programmazione di MTV per un secolo e mezzo, gli Ataris non brillano di luce propria nell’universo pop punk, ma non sono nemmeno gli ultimi della classe. I ragazzi di sicuro hanno studiato al college del punk più di tanti loro colleghi, e si sente, e questo è il loro disco migliore in assoluto, un po’ paraculo, un po’ profondo, un sacco divertente. Anche se temo che divertire non fosse il loro scopo, tra scazzi contro internet (di già?) ed estati lontane e dimenticate.

Good Charlotte – The Young And The Hopeless (2002)

Non riesco a spiegarvi quanto fosse radicato il mio odio per i Good Charlotte. Li trovavo insopportabili allora ed oggi il mio sentimento non si è mosso di un millimetro. Erano ciò che più si avvicinava ad una boyband, ben oltre gli stilemi musicali. Eppure qui ci stanno perfettamente, soprattutto con il loro debutto. Patinato oltre i limiti del possibile, con le chitarre sepolte da batteria e voci, punk per modo di dire. Eppure funzionò e si presero tutto. E anche qui c’è Josh Freese.

Panic! At The Disco – A Fever You Can’t Sweat Out (2005)

Prima di diventare un fenomeno radiofonico i Panic! At The Disco erano…più pesanti? No. Più profondi? No, ma che cazzo dite? Erano pop. Punto e a capo. “A Fever You Can’t Sweat Out” è un discone. Ci ho messo anni a digerirlo, ma quand’è accaduto non me ne sono più staccato. Il modo dei Panic di fondere pruriginose voglie dance a avvolgenti ambience emo e un vago gusto per il vaudeville non è di certo unico, ma sicuro come l’oro è tra i migliori si potessero trovare nel lontano 2005.

Lit – A Place In The Sun (1999)

Dopo aver tentato di battere i sentieri del nu-metal, evidentemente senza tutto ‘sto gran successo, i Lit si spostano così come si sposta il vento ed eccoli approdare nel mondo del pop punk facilone, scodinzolante dietro la moda del momento, ed eccoli qua, i fighetti californiani che abbracciano tutti i luoghi comuni della propria terra. Miserable è la summa finale di chiunque sogni ancora “Baywatch” ad occhi aperti.

MxPx – The Ever Passing Moment (2000)

Lo volete un disco con il quale andare a grindare in giro per la città con il vostro fido skate? Eccolo qua. “The Ever Passing Moment” è deliziosamente telefonato, imbottito a merda di passaggi melodici, senza un pensiero uno, coi tre nerd fatti e finiti a suonare secco in your face. Se mai i Descendents avessero dovuto passare il testimone l’avrebbero passato a questi signori qua.

Less Than Jake – Anthem (2003)

Poteva mancare una band infatuata dallo ska punk? Ovviamente no. Se i Reel Big Fish non si sono mai sbilanciati troppo da questa parte del pop punk, i Less Than Jake lo hanno fatto eccome e dati i risultati, perché non farlo? “Anthem” è uno di quei dischi che non possono che far bene, che ti mettono ti buona lena. Forse è quello che avrebbero voluto fare gli Shandon, qua da noi, ma…beh…

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