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Ma tu te lo ricordi il primo disco dei Wheatus?

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L’altro giorno (17 luglio), in una delle rare pause sigaretta a lavoro, mi ritrovo, come spesso accade, a “farmi un giro” sconclusionato su Instagram. Scorrendo la mia home page in preda alla noia e al caldo inenarrabili sorpasso un post di Stereogum senza badarci troppo. Sul subito non ci faccio caso, ma dopo poco torno sui miei passi. Mi soffermo. Guardo meglio. Nella foto c’è un tizio sorridenti, di quei sorrisi da schiaffi duri (come cantavano di Federico i Malfunk per intenderci), calcato in testa un cappellino “alla pescatora”, occhialacci (a occhio degli Oakley), piazzato davanti ad un microfono. “Cristo santo!” esclamo, noncurante di chi mi circondi, e poteva andare molto peggio. La didascalia mi ricordava che sono passati VENT’ANNI dall’uscita di Teenage Dirtbag. Nei corridoi si sente un pianto sommesso.

La scena si sposta a vent’anni prima, quando la canicola era già tremenda (non è vero che prima d’estate si stava meglio, cazzo), sullo schermo della TV passano video su video, un sacco di merda, poi arrivano i Wheatus, e la situazione non cambia, penso “Che cazzo è ‘sta roba?”. Erano gli anni delle commedie scolastiche americane, che allora se potevi evitavi come la peste, ma che, di nascosto, ti sparavi impietosamente pensando “è chiaramente un film, ‘ste robe non succedono davvero”. La rivincita dei nerd era davvero solo un film, o un genere. Il video era tratto dalla pellicola “Loser”, e al tempo un loser era un loser, e doveva averla davvero una rivincita, non erano ancora i tempi in cui “Big Bang Theory” portò la cultura nerd ai fasti della figaggine. No. Meno male. Nei giorni successivi Teenage Dirtbag continuerà a passare, ancora e ancora. Come un virus che si insinuerà impietoso nelle mie orecchie e in quelle di tanti miei sodali. Uno di loro, che suonava la batteria in diverse mie band dell’epoca, disse “i Wheatus sono dei geni!”. Lo trattammo con sufficienza. Lui è entrato in una popolare band da MTV Italia. Forse aveva davvero orecchio per certe cose. I Wheatus distrussero tutte le “chart”.

(Photo by Martyn Goodacre/Getty Images)

Nel mentre io il disco omonimo della band di Brendan B. Brown l’avevo comprato, di nascosto. Non ho resistito alla tentazione del pop. Era poi pop? Sì, forse pop-rock, dai. Non so bene cosa pensavo di trovarci, ma d’altro canto più o meno nello stesso periodo comprai anche “Playmate Of The Year” degli Zebrahead, a scopo puramente musicale. Fidatevi. Insomma, cosa pensavo poi di trovare in “Wheatus”? Forse qualcosa di meno colloso del singolone apripista, anzi, divelgipista, perché spaccò tutto davvero. Invece no, ci trovai proprio la stessa cosa. Al tempo la mia giovane mente di quattordicenne avvezzo a roba ben più pe(n)sante dovette faticare per capire dove risiedesse il bello di un disco di questo tipo. Semplice, questi erano gli anti-Smash Mouth. Molto più modaioli e freschi, molto più…non lo so, riuscivano a mischiare tutto quel che andava musicalmente di moda in quell’inizio di nuovo Millennio in maniera davvero sapiente, e credo che pure questa sia un’arte. E comunque continuava a farmi schifo/farmi impazzire. Non lo rivaluterò qui, perché non ce n’è bisogno.

Il disco era quel che era, una manciata di canzoni registrate da un gruppo di ragazzini in uno scantinato (letteralmente nello scantinato della mamma di Brendan), che però sono finiti con un contratto da sudare freddo su Columbia, su tutte le reti musicali, sulla colonna sonora di un teenager-movie, il tipico miracolo di cui sopra, con qualche piccola spinta di qualcuno che credette nella band nei film i testi pure erano quel che erano, dei vaneggiamenti post-sbongata, pieni di boutade sboccate. Su Truffles “Wouldn’t fuck’er for my country with a flag on her face and a stolen dick”, una roba che oggi ti procurerebbe la pubblica gogna, ma è uscita vent’anni fa, quando potevi ancora permetterti di esagerare e scherzare. I continui richiami agli Iron Maiden, che ascoltare metal non ti procurava ovazioni, ma sputi in faccia (e a me i Maiden fanno comunque cagare), sfottò ai redneck, come nella potentissima – dato il contesto – Hey, Mr. Brown, il dito accusatore puntato sui “fighi” di Punk Ass Bitch, in cui il “guido” di turno (in pratica un tamarro da “Jersey Shore”) col suo “machismo machasma” che diventa un “miasma” attira le ire di Brendan e allora giù insultoni, stessa cosa ai volenterosi gangsta da high school che vengono derisi su Wannabe Gangstar, mentre Leroy è la canzone perfetta per delineare la figura del tizio della compagnia che fa bordello. Nessuna ricerca, ne musicale, né lirica. Mi annoio, vado in cantina e faccio partire il registratore.

L’ho detto prima e lo ribadisco, non mi metterò a dare nuovo smalto a “Wheatus”, non userò termini edulcorati, non lo svenderò vent’anni dopo come un discone pazzesco. Non lo era e non lo sarà mai. Diversi lustri dopo è ancora un album che metti su quando ti guardi allo specchio e ti ricordi che sei vecchio e che qui le stesse cose le cantavano già vent’anni prima gli 883. Che poi il livello è quello. Siamo nel puro campo della retromania senza imbellettamenti, non facciamo di certo i paraculi. Però è e resta divertente, soprattutto per te che non sei cresciuto oltreoceano. L’ho rimesso su per farmi quattro risate e me le sono fatte, ora torno ad avere 34 anni. Però lo ricompro lo stesso su Amazon, e questa volta non di nascosto. Ascoltare musica brutta non è un reato.

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